È la storia di una donna ivoriana, che racconta la sua relazione durata quattro anni e la battaglia che ne è seguita per dare ai propri figli il cognome del padre. Una storia comune a mezzo milione di donne in Svizzera
GINEVRA – “Ho avuto due figli con lui, ma nega e non li vuole riconoscere”, potrebbe essere una denuncia come tante quella di una donna ivoriana, se non fosse che il ‘lui’ in questione è un prete.
La storia della donna, portata alla luce oggi dal Caffè e da Le Matin, comincia nel 2005 quando, fuggita dal proprio paese dopo essere rimasta sola al mondo, arriva in Svizzera. Qui viene accolta da un prete, che si offre di aiutarla per la domanda di asilo. Presto i due si innamorano e di fatto convivono all’interno di una parrocchia ginevrina.
Di questo periodo, la donna racconta: “Non provavo sensi di colpa In lui io non vedevo né un prete né l'uomo proibito, ma solo e semplicemente l'uomo”, parlando anche delle rassicurazioni ricevute dal prete sulle sue intenzione di muovere tutti i passi necessari per ‘regolarizzare’ la loro situazione e poterla finalmente sposare. Ma i tempi si dilatano, l’uomo, spiega ancora la donna, aveva deciso di diventare prete perché questa era la soluzione che gli aveva permesso di acquisire uno status sociale che gli permetteva di aiutare la sua famiglia di modeste origini, difficile mollare tutto.
Sempre nel 2005 arriva il primo figlio della coppia, che nel frattempo è già stata divisa: il prete è stato infatti trasferito in un altro cantone, ma la loro relazione continua. “Veniva da me di tanto in tanto per avere affetto e fare sesso”.
Visite che continuano fino al 2007 quando la donna rimane incinta del secondo figlio e qui la situazione precipita. Il prete, nonostante il suo esser uomo di Chiesa, arriva infatti a chiedere alla compagna di abortire. Un’esperienza che per lei, racconta, si rivela ancora oggi drammatica: “Ricordo ancora la scena e fa male. È stata una ferita profonda che continua a sanguinare”. La donna sceglie però di tenere anche il secondogenito.
La relazione si interrompe bruscamente solo nel 2009 quando il prete scompare letteralmente dalla sua vita e da quella dei figli: “Ha tagliato i ponti senza darmi alcuna spiegazione”. L’uomo inoltre, nonostante un test del DNA che prova al 99% che lui è il padre dei due bambini, continua a negare qualsiasi legame con loro.
Ma la donna, che ora lavora come ausiliaria in una casa di cura e insegna catechismo, sorretta da una fede che definisce infinita nonostante l’esperienza vissuta, non si dà per vinta e continua la sua battaglia per dare un padre ai loro figli: “I miei bambini hanno tutto il diritto di portare il cognome del loro padre. Sono frutto di un rapporto d'amore, io non faccio figli con chiunque, sia chiaro. Voglio che sui loro documenti ci sia l'identità di chi li ha procreati. Ma lo faccio pure per il mio onore, per la dignità”.
L’ivoriana si è quindi rivolta a Zöfra, associazione che dà proprio aiuto alle donne che vivono una relazione con un prete. Ed è proprio parlando di questo appello che la storia tocca uno dei temi da sempre discussi nell’ambito ecclesiastico: il celibato.
“Se non esistesse – commenta –, donne come me avrebbero la possibilità di vivere propria relazione d'amore alla luce del sole, senza doversi nascondere o vergognare”.
Già perché, come rivelano i dati forniti da Zöfra, la sua è una storia meno rara di quel che si pensi e che tocca in realtà circa mezzo milione di donne in Svizzera. Una storia che la donna ha deciso di raccontare sperando che il tribunale dia ai suoi figli il cognome del padre e per aiutare chi è nella sua situazione. E nella speranza, perché no, che si riapra il dibattito sul celibato anche in una Chiesa che il Pontefice attuale sembra provare a modernizzare.