CORONAVIRUS
Funzionano le misure di protezione negli ospedali ticinesi
È quanto emerge da uno studio condotto in Ticino e pubblicato sulla prestigiosa rivista Lancet. Tutti i dettagli
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BELLINZONA/LUGANO – Nei giorni scorsi nella collezione Regional Health Europe della prestigiosa rivista Lancet, sono stati pubblicati i risultati di uno studio, completamente condotto in Ticino, relativo ai dati dei test sierologici SARS-CoV-2 eseguiti presso i collaboratori delle strutture sanitarie ticinesi. Lo studio, reso possibile grazie a un collaborazione tra EOC, Istituto di ricerca in biomedicina (IRB, affiliato all’USI), Humabs BioMed (filiale di Vir Biotechnology), l’Istituto di salute pubblica dell’USI, la Clinica Luganese di Moncucco (CLM), il Cardiocentro e la Clinica Hildebrand, ha coinvolto 4'726 professionisti sanitari attivi negli ospedali del Cantone.

L’obbiettivo dello studio era di valutare se i professionisti attivi in un contesto COVID fossero sottoposti ad un rischio maggiore di contrarre la malattia rispetto alla popolazione. I risultati hanno registrato la presenza di anticorpi SARS-CoV-2 nel 10% dei professionisti coinvolti. Tale risultato è equiparabile ai risultati dello studio Corona Immunitas condotto presso la popolazione ticinese, ma soprattutto tale risultato dimostra che gli operatori sanitari con esposizione a COVID hanno un rischio assoluto di sieropositività solo leggermente più elevato rispetto alle persone senza esposizione alla malattia. Il risultato suggerisce quindi che l’attuazione delle misure di protezione messe in atto a livello ospedaliero sono strumenti efficaci di protezione e di riduzione della trasmissione virale nosocomiale.

Lo studio, condotto tra il 16 e il 30 aprile 2020, ha coinvolto operatori sanitari attivi in diversi contesti e con un rischio di esposizione a COVID differenziato. Ai 4'726 professionisti che si sono sottoposti al prelievo di sangue venoso è stato chiesto di rispondere, contestualmente, a delle domande specifiche, volte a rilevare informazioni utili allo studio, quali il contesto di riferimento (lavorativo e non, comprensivo di eventuali contatti con persone con COVID confermato) e lo stato di salute attuale in relazione ai sintomi clinici dell’infezione.

“Grazie alla collaborazione con IRB, Humabs Biomed e gli altri partner, questo studio coordinato dall’Unità di sperimentazione clinica dell’EOC (CTU-EOC) diretta dal Prof. Alessandro Ceschi ha permesso di fare un altro importante passo in avanti nella lotta contro il COVID”, spiega il Prof. Paolo Ferrari, responsabile medico dell’EOC e prof. della Facoltà di scienze biomediche dell’USI.

“Il test sierologico usato all’IRB è stato sviluppato dal team del Dr. Davide Corti alla Humabs BioMed e misura gli anticorpi contro la porzione del virus che è responsabile dell’infezione delle cellule dell’ospite. Esperimenti di validazione hanno confermato la specificità e la sensibilità del test”, spiega la Prof.ssa Federica Sallusto, Direttrice di laboratorio presso l’Istituto bellinzonese, affiliato all’USI. “In ogni caso, è importante ricordare che la presenza di anticorpi specifici non ci permette ancora di stabilire se un individuo è protetto, parzialmente o totalmente, da una re-infezione. Per questo sarà importante continuare a seguire nel tempo i donatori che hanno sviluppato gli anticorpi dopo l’infezione e anche coloro che li svilupperanno dopo la vaccinazione COVID-19. Per questo, contiamo sulla straordinaria collaborazione dei volontari che hanno aderito allo studio”, precisa la Prof.ssa Sallusto.

I dati di prevalenza sono stati considerati secondo tre prospettive – tipologia di ospedale, tipologia di reparto di cura e categoria professionale, permettendo di valutare differenti categorie di rischio a seconda dell’esposizione. “Con tale classificazione si intendeva valutare, oltre alla presenza di anticorpi SARS-CoV-2 negli operatori sanitari di una regione particolarmente colpita dalla pandemia come il Ticino, l’eventuale impatto dell’ambito di cura e della riorganizzazione del sistema sanitario, resasi necessaria per affrontare la crisi sanitaria e garantire un’adeguata presa in carico dei pazienti.”, continua il Prof. Ferrari

L’analisi dei dati ha evidenziato che il 69% dei partecipanti segnalava di avere accusato nei due mesi precedenti il prelievo sintomi lievi riferibili a COVID, il 21% negava qualsiasi sintomo, mentre solo il 7% riportava dei sintomi moderati. “La distribuzione delle diverse tipologie di collaboratori, riportanti o meno sintomi collegabili a COVID – spiega il Prof. Alessandro Ceschi, Primario dell’Istituto di Scienze Farmacologiche della Svizzera Italiana e Direttore della Clinical Trial Unit EOC e prof. della Facoltà di scienze biomediche dell’USI – era simile tra le diverse categorie di rischio. Tuttavia, i risultati hanno evidenziato che sebbene vi sia un rischio assoluto di sieroconversione leggermente più elevato per gli operatori sanitari con contatto diretto con il paziente, non esistono delle differenze significative tra le strutture ospedaliere dedicate al trattamento dei pazienti COVID e le strutture non COVID. Questo ci porta a dire che lavorare a contatto diretto con pazienti COVID, applicando le misure di protezione adeguate, non rappresenta un fattore di rischio di per sé.”

Tra i risultati dello studio è emerso un altro aspetto particolarmente interessante: il rischio più elevato di sieroconversione è dovuto a contatti domestici con casi noti di COVID: la sieropositività più elevata (19%) è stata identificata nei collaboratori con esposizione domestica a COVID; mentre nei collaboratori senza esposizione domestica, la sieropositività era del 8%. “Lo studio condotto con gli operatori sanitari ha registrato in generale la presenza di anticorpi nel 10% dei collaboratori. Nei collaboratori ad alto rischio, il dato di prevalenza era solo di 3% superiore rispetto a quello generale della popolazione dello studio Corona Immunitas USI-SUPSI-EOC. Questo risultato testimonia l’adeguatezza dei mezzi di protezione individuale e delle altre misure di prevenzione (igiene delle mani e distanze sociali), attuate all’interno delle strutture ospedaliere” conclude il Prof. Ceschi.

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