Riflessioni a margine sulle figure dei due magistrati nel trentesimo anniversario della strage di Capaci e via d'Amelio
di Andrea Leoni
Giovanni Falcone è stato un eroe, ma non un super eroe. Attribuirgli poteri speciali, come si usa fare nella retorica delle celebrazioni, ne sminuisce la straordinaria statura di uomo e in qualche modo ne annacqua l’esempio. Nessuno può ispirarsi a Superman, invece tutti possiamo misurarci con la figura di questo magistrato palermitano, prima ancora che siciliano. Quasi tutti ne usciremo piccini, ma sempre uomini tra uomini. E un giorno, chissà, forse qualcuno di noi avrà i mezzi e le capacità per emularne le gesta, per esserne alla pari, così come lui lo è stato con altri eroi che l’hanno preceduto. Così funziona tra esseri umani.
A 30 anni dalla strage di Capaci, vi è il distacco sufficiente per tentare di storicizzare, almeno in parte, la figura di Giovanni Falcone. Va detto in principio che probabilmente non sbaglia chi lo ha definito un intellettuale del diritto. La passione per la legge, prima ancora della scrupolosa conoscenza delle norme, gli ha permesso d’intravvedere e percorrere strade che prima di lui nessuno aveva mai neppure immaginato. Strade sempre percorse però non con la stravaganza dell’artista, ma con il rigore dello studioso che non cerca scorciatoie. Un autentico innovatore più che un rivoluzionario, che incastrava le sue intuizioni nel mosaico del diritto e non viceversa. E come ogni innovatore i primi a combatterlo sono stati i suoi colleghi, larga parte del mondo della magistratura italiana, dal primo all’ultimo giorno. Per invidia, certo, ma anche perché Falcone proponeva riforme che squassavano lo status quo della corporazione alla quale apparteneva. Perfino Paolo Borsellino firmò una lettera pubblica critica vero l’amico Giovanni, insieme ad altri magistrati, per opporsi al progetto della Super Procura anti mafia. Lo ricordò lo lui stesso, con l’onore che gli è proprio, in quella straordinaria commemorazione pubblica svoltasi a Palermo a un mese dalla strage di Capaci. In quell’occasione Borsellino, nel memorabile discorso in cui puntò il dito contro i “giuda” che avevano impedito a Falcone di assumere di volta in volta gli incarichi a cui si era candidato, rammenterà pure i rimproveri che lui, ed altri seduti accanto a lui in quel chiostro, avevano mosso all’amico e collega nell’ultimo periodo della sua vita. In particolare quello di essersi avvicinato troppo al potere politico e al potere politico peggiore, quello socialista ed andreottiano.
In effetti Falcone, poiché impedito a poter svolgere le sue funzioni alla Procura di Palermo, sottoposto a umiliazioni e a veleni di ogni genere, si era trasferito a Roma, al ministero della giustizia, chiamato dall’allora ministro del PSI Claudio Martelli. Anche se in un ruolo squisitamente tecnico lavorava per l’amministrazione del Governo presieduto da Giulio Andreotti. Quel Giulio Andreotti i cui capi corrente in Sicilia erano mafiosi conclamati o in forte odore di mafia (Vito Ciancimino e Salvo Lima) e i cui rapporti con Cosa Nostra, fino agli anni '80, sono stati successivamente appurati con sentenza della cassazione. Lima fu il primo a pagare con la vita le sentenze definitive del maxi processo: venne ucciso qualche mese prima di Falcone poiché, in quanto referente politico di Cosa Nostra, non era riuscito a modificare l’esito delle condanne: una pioggia di ergastoli per i boss. Giulio Andreotti partecipò al funerale di Lima, non a quello di Falcone: un'assenza per pudore?
Ma fu lo stesso Governo Andreotti, grazie al lavoro di Falcone, a promuovere strutture repressive e impalcature normative anti mafia, mai viste prime di allora. È impossibile giudicare con gli occhi di oggi, le critiche di allora. È evidente che Falcone si muoveva su un crinale non privo di contraddizioni, offrendo però a garanzia la propria inappuntabile storia di servitore dello Stato. Garanzia sempre mantenuta. È ragionevole ritenere che egli abbia creduto che quel passo verso la politica fosse un male necessario, per creare finalmente condizioni quadro di contrasto alla malavita nell’unico luogo deputato a farlo in una democrazia: il Governo. Un passaggio “politico” per poi tornare ad occuparsi di mafia in prima linea, come capo di quella Superprocura che si era inventato e che ancora oggi opera contro tutte le organizzazioni criminali.
“Possiamo sempre fare qualcosa”. Questa massima, secondo Giovanni Falcone, andrebbe scolpita nell’ufficio di ogni procuratore e ogni poliziotto. Forse a noi spetterebbe ricordarla, anche alle nostre latitudini, a quei politici e a quei magistrati che talvolta giustificano l’assenza dell’azione penale, in un rimbalzo di competenza tra Procure e polizie. Falcone, infatti, oltre ad essere un intellettuale del diritto, era anche un formidabile investigatore. Per “fare qualcosa” era capace di sfruttare ogni singolo strumento che la legislazione gli metteva nella cassetta degli attrezzi, pur tuttavia senza mai abusarne in maniera impropria. Si fosse attenuto superficialmente a “conflitti di competenze”, burocrazie e nomenclature varie, non avrebbe neppure cominciato la sua opera. Invece, passo dopo passo, intuizione dopo intuizione, ha trovato il modo “per fare qualcosa” e ha costruito un metodo. Il “metodo Falcone”, il cui pilastro resta “follow the money”, segui i soldi. Su quel metodo sono cresciuti generazioni di magistrati e investigatori. Nell’accademia dell’FBI a Quantico in Virginia c’è una statua del magistrato, posizionata in modo che i cadetti possano vederla almeno due volte al giorno. Quando Falcone venne ammazzato il Congresso votò una risoluzione nella quale si disse che l’omicidio del giudice era da ritenersi un crimine perpetuato anche ai danni degli Stati Uniti d’America. È proprio vero che nessuno è profeta in patria.
Negli anni, tuttavia, il “metodo Falcone” è stato in parte strapazzato e citato a sproposito. Spesso infatti viene dimenticato il garantismo che ha sempre ispirato l’uomo, così come la ricerca scrupolosa delle prove, a costo di rinunciare a procedimenti “golosi”, soprattutto politicamente, ma fondati su ipotesi non riscontrabili. Celeberrima è la sua battuta “il sospetto non è l’anticamera della verità, ma del khomeinismo”. Meno conosciuta ma forse ancora più didattica è la frase che espresse durante un battibecco al Costanzo show. Suona più o meno così: “Guai a chi non deve mai rispondere delle proprie azioni. Chi è indipendente deve sempre rispondere. Non va mai confusa l’indipendenza con arbitrio”. Avendo letto centinaia di articoli, e decine di libri, mi sono fatto l’idea che questo magistrato, nato berlingueriano, abbia con il tempo maturato un’idea profondamente liberale del diritto, pur restando un uomo di sinistra attentissimo alle disuguaglianze sociali: la sorgente principale a cui il crimine che combatteva si abbeverava.
E veniamo a Capaci. Le inchieste giudiziarie hanno permesso di ricostruire molto di quel 23 maggio, probabilmente tutto di ciò che è accertabile. Si sa chi diede l’ordine, chi organizzò materialmente la strage, chi premette il bottone sul pulsante del telecomando che fece deflagrare l’autostrada. Non conosceremo mai le motivazioni per le quali Salvatore Riina, scelse di eliminare Falcone con un attentato terroristico di stampo militare e di difficilissima esecuzione. Un’azione in tutto e per tutto paragonabile alle più clamorose operazioni del terrorismo islamico. Sappiamo che il magistrato era stato fatto pedinare a Roma, dove spesso si muoveva senza scorta. Eliminarlo sarebbe stato certamente più semplice e con un impatto psicologicamente assai minore sul Mondo intero del cratere di Capaci. Ma a un certo punto Riina richiamò i suoi uomini in Sicilia, scegliendo la strategia rischiosa dell’attentatuni. Talmente rischiosa che, di fatto, gli esecutori sbagliarono il tempo d’innesco della bomba. Falcone morì, in ospedale e non sul colpo, soltanto perché si trovava alla guida dell’auto e fu travolto dal muro di detriti sollevati dal tritolo. Il suo autista, seduto sui sedili posteriori, è tutt’ora in vita. Questione di qualche decina di centimetri.
Se Falcone è stato un eroe, Paolo Borsellino è stato un martire. Se Falcone è stato un fuoriclasse, Borsellino è stato un mediano ma con un coraggio, una rettitudine, una tenacia e una devozione alla causa che, dal profilo umano, lo elevano in tutto e per tutto alla pari del collega. Se di Capaci sappiamo molto, forse tutto, la strage di via D’Amelio resta avvolta nel mistero. Un mistero che parte visivamente dal luogo del delitto, con tutte quelle auto parcheggiate sotto casa della mamma del giudice - il giudice dopo la morte di Falcone più esposto d’Italia - nonostante da tempo ne fosse stata chiesta la rimozione. Una di quelle auto, imbottite di tritolo, farà a brandelli il magistrato e la sua scorta, il 19 luglio 1992.
Nei 57 giorni che separano le due stragi Paolo Borsellino si comporta esattamente come un uomo mandato al martirio. Mentre sale verso il Golgota lavora come un forsennato (“mi resta poco tempo”), dichiara pubblicamente che a Palermo è giunto il tritolo per ammazzarlo, tiene a distanza affettiva i figli per abituarli alla sua dipartita, si dice addirittura che si sia fatto impartire l’estrema unzione. Probabilmente scopre qualcosa e la sua eliminazione subisce un’accelerazione improvvisa.
Ogni volta che ripenso ai 57 giorni di Borsellino mi pervade un senso d’ingiustizia e di ammirazione. Ingiustizia per come quest’uomo è stato mandato al macello dallo Stato che serviva. Uno Stato che doveva e poteva proteggerlo. Ammirazione per un uomo che, proprio come un Cristo, non si sottrae alla croce, anzi la sceglie consapevolmente. E così muore da credente, marito, padre, figlio, uomo delle istituzioni e di destra. La sola constatazione dei fatti appena esposti rendono la morte di Paolo Borsellino e dei suoi angeli custodi un delitto di Stato e non solo di mafia.
Per anni un finto pentito depisterà le indagini, grazie a funzionari di giustizia incapaci e creduloni, quando non complici. E a distanza di 30 anni la strage di via d’Amelio resta avvolta nel mistero.