CRONACA
In morte di Matteo Messina Denaro
La latitanza sfacciata, la malattia e la cattura, i segreti veri e presunti, le parole ai magistrati, la sconfitta della mafia stragista. E i rapporti con la Svizzera...

di Andrea Leoni

Gli sono mancati pochi mesi per eguagliare il primato del padre Francesco, don Ciccio, morto in latitanza e la cui salma venne fatta rinvenire pronta per le esequie. Pochi mesi trascorsi tra la cella del carcere dell’Aquila e quella dell’ospedale, dove la scorsa notte Matteo Messina Denaro è morto divorato dal cancro al colon scoperto tre anni fa.

Non si è fatto arrestare

Non si è fatto arrestare, questo è sicuro, chi lo afferma non conosce a fondo la storia e la psicologia del personaggio. Il primato del padre rappresentava certamente un obbiettivo, capace di dare un velo di prestigio a una Cosa Nostra ammaccata e, soprattutto, di consegnare se stesso alla mitologia mafiosa: diventare una leggenda. Perché un contro è morire in latitanza nel 1998, non essendo neppure il primo della lista, altra cosa è farlo tra i maggiori ricercati del Mondo negli anni ’20 del 2000, con le sofisticate tecniche investigative del giorno d’oggi e con un’organizzazione mafiosa infinitamente più debole rispetto a trent’anni. E per uno con l’ego di MMD non era questione secondaria, affatto.

Non gli è riuscito per poco, ma comunque non si può dire che gli sia andata male. Con il destino segnato dal tumore, pochi giorni di carcere devono essergli parsi un compromesso ragionevole, a fronte di 30 anni di beata latitanza. E c’è un fondo di verità nell’affermazione spavalda rivolta ai magistrati che per quattro volte hanno potuto interrogarlo: “Mi avete preso solo a causa della mia malattia”. Non perché si sia consegnato, una tesi avvalorata dalla famosa “profezia” di Salvatore Baiardo che ne annunciò in tv l’arresto con qualche mese di anticipo, quanto perché a causa del cancro ha dovuto modificare abitudini e comportamenti. Per nascondersi si è dovuto fare albero nella foresta del paese di Campobello di Mazara, come da lui stesso spiegato agli inquirenti, citando un proverbio ebraico. Ha dovuto scendere a patti: i telefonini per esempio, i cicli di chemioterapia, lo scambio d’identità con un compaesano. Per curarsi ha abbassatola soglia delle cautele, accettando un rischio assai maggiore di essere arrestato. Che è cosa assai diversa da quanto sostenuto da Baiardo che, da giocatore di poker qual è, ha mischiato abilmente una notizia vera che poteva circolare in certi ambienti (la malattia), con un’illazione (si è fatto arrestare) per sfornare un bluff riuscitissimo e probabilmente utile ad altre cause.

"Mi avete preso solo per la malattia"

Ma c’è del vero in quell’affermazione, soprattutto da un punto di vista fattuale. Prima dei mesi a cavallo tra il ’22 e il ’23, grazie all’accurata inchiesta di magistratura e carabinieri che ha portato all’arresto, gli inquirenti lo avevano appena sfiorato. La cattura di Messina Denaro, negli anni scorsi, è stato poco più di un miraggio. E ciò nonostante gli avessero sequestrato miliardi di patrimonio e gli avessero arrestato parenti, amici e fiancheggiatori. Sembrava un fantasma, tanto che più di una fonte investigativa riteneva che ormai si fosse trasferito all’estero. All’estero sicuramente ha vissuto per lunghi periodi, ma senza mai recidere quel filo con il suo territorio, indispensabile soprattutto per mantenere la latitanza e il suo status di capo. Una latitanza costa già di per sé molti soldi, ma nel caso di Messina Denaro quei denari vanno moltiplicati, considerato lo stile di vita del boss (quando l’hanno arrestato indossava un cappotto da 8’000 Euro di un noto stilista italiano e un orologio da decine di migliaia). Agli inquirenti ora il compito di cercare di ricostruire trent’anni di scandalosa clandestinità e di sequestrare quanti più soldi possibili. Alcuni degli averi sono qui, in Svizzera, forse in Ticino, un Paese e un Cantone con cui Cosa Nostra e la famiglia Messina Denaro hanno sempre avuto forti relazioni, da quando don Ciccio trafficava opere d’arte sottratte alle collettività con scavi illegali nel sito archeologico di Selinunte.

I teoremi e le prove

La tesi che va per la maggiore è che a proteggere la latitanza di Messina Denaro siano stati soprattutto i segreti che egli custodiva. Segreti in grado di far tremare le fondamenta dello Stato. Dai documenti dell’archivio di Totò Riina all’agenda rossa del giudice Borsellino. Ma queste sono ipotesi suffragate da qualche indizio - ma spesso spacciate come verità acclarate nel dibattito pubblico - che possono alimentare speculazioni giornalistiche, al limite dibattiti storici e socilogici. Il Processo penale è un’altra cosa e si fonda sulle prove. E di prove a sostegno di questa tesi, come ha giustamente ricordato il Procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia, al momento non ce ne sono. Purtroppo in Italia c’è stato il malvezzo, anche a causa di vergognosi depistaggi scoperti con anni di ritardo, di istruire processi sulla base di teoremi, dimenticando la prima lezione del giudice Giovanni Falcone: il sospetto non è l’anticamera della verità, ma del khomeinismo. Del resto Falcone in vita era stato più volte accusato di tenere nel cassetto inchieste scottanti. Ma a processo si va se si hanno le prove, altrimenti ci si ferma, tenendosi magari sul gozzo il dubbio di non poter perseguire un criminale. Questa è autentica civiltà giuridica che riconosce i limiti e l’imperfezione umana della giustizia.

La latitanza sfacciata

Ma di segreti mafiosi, interni all’organizzazione, Matteo Messina Denaro ne custodiva senz’altro, essendo stato tra i protagonisti della stagione stragista di Riina e di quella successiva dell’inabissamento voluta da Bernardo Provenzano, con cui ha intrattenuto una fitta corrispondenza, quando entrambi erano fuggiaschi. Come non ci sono dubbi che la sua latitanza sia stata agevolata in passato da servitori infedeli dello Stato, alcuni dei quali già scovati e condannati. Da questo punto di vista vanno approfonditi con zelo investigativo gli ultimi anni - almeno 3 o 4 - trascorsi a Campobello. Perché d’accordo la tecnica dell’albero in mezzo alla foresta, e altresì il fatto che il suo volto nel 2023 fosse sconosciuto, ma una latitanza condotta così sfacciatamente resta difficile da giustificare. Un po’ per gli abitanti di Campobello, poche migliaia di abitanti, alcuni dei quali conoscevano MMD da ragazzo, che non avevano notato quel distinto “signor Francesco” che andava a fare la spesa, al ristorante e a giocare a poker. Ma un po’ anche per le forze dell’ordine che avevano riempito di telecamere il paese (Messina Denaro dichiarerà in interrogatorio che ne conosceva tutte le posizioni), che avevano fatto un blitz con diversi arresti nel bar a pochi metri dal suo appartamento, che non avevano tenuto d’occhio fiancheggiatori - poi arrestati - non proprio insospettabili. Come è stato possibile? Il giudice del Tribunale di Palermo Alfredo Montalto parla di “incredibile insuccesso investigativo”.

L'interrogatorio

Si accennava all’interrogatorio, l’unico finora pubblico, di Messina Denaro. Alcuni media si sono soffermati su scontate frasi ad effetto - “non conosco Cosa Nostra”; “non mi pentirò mai” - e pochi sul gioco psicologico che il boss ingaggia con gli inquirenti. Innanzitutto MMD risponde, a differenza degli altri capi del passato. E nel rispondere fornisce anche la chiave con cui interpretarlo. “Se vi dirò delle bugie, ed è chiaro che sono bugie, lasciatemele passare”. Come a dire…tutti sappiamo chi sono io. Dice tantissime cose l’ex primula rossa, anche quando non dice e spiega il perché. Ovviamente l’errore più grave sarebbe prendere per oro colato quelle dichiarazioni, dove certamente vi è un mix di mezze verità, molte bugie e ricostruzioni pro domo suo. Ma è un documento interessantissimo da leggere per tratteggiare il profilo criminale dell’uomo. Stupisce l’impeto, ad esempio, con cui senza che gli venga chiesto si distanzia dall’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo: rapito, strangolato e sciolto nell’acido per far tacere il padre Santino, primo pentito della strage di Capaci. Messina Denaro, tra le righe, dice: accollatemi pure il sequestro ma non l’omicidio, che non c’entro nulla. Ciò dimostra quanto quel crimine bestiale abbia demolito la “reputazione” di Cosa Nostra e dei suoi capi, tanto che nessuno, a parte il pentito Giovanni Brusca, si è mai assunto la responsabilità di un delitto che, invece, venne deciso in associazione e una sentenza definitiva inchioda Messina Denaro a quella disumana responsabilità. E ciò vale anche per le stragi Falcone e Borsellino, così come per gli attentati commessi in continente a Firenze, Milano e Roma. Quanto sangue su quelle mani.

La sconfitta della mafia stragista

È morto giovane Matteo Messina Denaro, 61 anni appena. C’è chi dice che, anche qualora non fosse stato malato, non si sarebbe mai pentito e sarebbe morto di vecchiaia in cella, come Riina e Provenzano, dopo anni di carcere duro. Qualche dubbio a noi resta perché MMD è stato il più atipico dei capimafia. Ha sempre pensato innanzitutto a se stesso e ha violato ogni regola dell’organizzazione. Per dirne una: ha intrattenuto una relazione amorosa con la moglie di un mafioso in carcere. È un uomo che ha sempre amato il lusso e la sua ostentazione, la bella vita, la libertà. Imprenditore mafioso con un grande fiuto per gli affari e per l’innovazione: fu il primo in Cosa Nostra a capire il potenziale delle energie alternative, facendoci un sacco di soldi. Uomo di letture colte, appassionato di storia e di politica, ma capace di trascendere nel kitsch più pacchiano, soprattutto per pettinare il proprio ego. Probabilmente si sentiva una sorta d’intellettuale mafioso e certamente era interessato a propagandare il proprio mito. Ma se il pentimento, a un certo punto, gli fosse convenuto, un pensiero certamente ce l’avrebbe fatto.

C’è un dato infine che, in morte di Matteo Messina Denaro, va sottolineato con forza. La Cosa Nostra stragista è stata sconfitta dallo Stato italiano, grazie al sacrificio di troppi martiri e al lavoro di tanti carabinieri, poliziotti e magistrati che si sono impegnati in questa lotta. Tutti i protagonisti mafiosi di quella parentesi tremenda sono stati assicurati alla giustizia. Non tutte le domande hanno trovato risposta, non tutte le complicità sono state scoperte, non tutte le zone d’ombra sono state illuminate. Ma quella mafia è stata sconfitta. E questo è un fatto e una vittoria storica.

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