CRONACA
"L'odio chiama odio. Assistiamo a un meccanismo perverso"
Rupen Nacaroglu riflette sui social: "Non importa l'oggetto della discussione. Non si discute più, stiamo perdendo la capacità di costruire insieme"
TIPRESS

*Di Rupen Nacaroglu

Un referendum sui 30 km/h a Lugano, una manifestazione pro-Palestina, una decisione di quartiere: non importa l’oggetto, il meccanismo è sempre lo stesso. Ci si divide in due blocchi contrapposti, non solo “favorevoli” o “contrari”, ma portatori di una verità assoluta, incapaci di riconoscere dignità all’opinione dell’altro.

Non si discute più. Si attacca. Non si argomenta. Si odia. Chi non pensa come noi non è un interlocutore con cui dialogare, ma un avversario da colpire. È un cortocircuito culturale che i social amplificano all’infinito, trasformando la libertà di parola in libertà di insulto.

Questa è la mia più grande preoccupazione: stiamo perdendo la capacità di costruire insieme. Il dissenso dovrebbe arricchire, non avvelenare. E invece assistiamo a un meccanismo perverso in cui l’odio chiama odio, e in cui persino chi governa o chi si candida preferisce demonizzare l’altro, piuttosto che cercare un punto d’incontro.

Se continuiamo così, non avremo più cittadini che discutono: avremo tifoserie che si odiano. E da lì, il passo verso un tessuto sociale fragile e spaccato è molto breve.

*Dal profilo Facebook

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