Il Segretario di Stato intreccia il voto britannico con la situazione del nostro Paese: "A preoccupare non è tanto la diffusa retorica antieuropea ma la miopia propositiva che l’accompagna: rifugiati? Basta tirar su una ramina più alta di quella degli altri. Disoccupazione? Basta con l’esposizione alla concorrenza internazionale, alla globalizzazione, torniamo all’autarchia: un’acciaieria a Bodio e una filanda a Mendrisio; e precedenza ai Nostri per andarci a lavorare. I nipoti ci saranno riconoscenti"
Per generazioni la Svizzera ha tratto profitto e perfino fondato la sua identità, in modi talvolta da andarne fieri talvolta meno, da situazioni conflittuali tra i suoi più potenti vicini. Gli ultimi decenni ci hanno messi di fronte un solo potentissimo vicino con il quale dover fare i conti, l’Unione europea (UE). Una situazione sgradevole che ci ha divisi internamente: tra chi è più propenso all’adattamento e chi invece ad assumere i rischi d’isolamento e di conflitto.
Il voto britannico suscita ora in Svizzera speranze di ritorno al passato, di recupero di margini di manovra nelle relazioni internazionali, grazie all’indebolimento dell’UE. Una prospettiva più apparente che di sostanza. Nel più imprevisto, rapido e sofferto adattamento della Svizzera alle pressioni internazionali degli ultimi anni, quello intorno al segreto bancario, l’UE non aveva avuto alcun ruolo. La metà del nostro tenore di vita dipende da esportazioni di beni e servizi, e per mantenerlo dobbiamo confrontarci con regole discusse e decise fuori dai nostri confini: regole europee, ma anche dell’OCSE, della WTO, del G20. Regole non sempre applicate in modo uguale a tutti, ma i rapporti di forza sono sempre stati la realtà nei rapporti internazionali.
E ciò vale non solo in materia commerciale. Anche per le regole sulla migrazione: se ci mettiamo a fare contingenti, ben più dei trattati con l’UE saremo limitati e condizionati dalle imprese che hanno creato in Svizzera centinaia di migliaia di posti di lavoro qualificati – Google per citarne una – e che potrebbero andarsene se troppo impedite a reclutare anche fuori dai confini i talenti di cui necessitano.
Le relazioni internazionali offrono occasione d’interessanti esperienze. Qualche anno fa, aspettando al bar che venisse notte con un collega austriaco e uno norvegese prossimi alla pensione, dai temi professionali siamo passati a quelli personali. Il Norvegese raccontò di non avere conosciuto suo padre, fucilato dagli occupanti nazisti; l’Austriaco che suo padre era partito per Stalingrado prima della sua nascita e morto prigioniero dei sovietici. Avevano sulla loro pelle ancora la cruda realtà della guerra in Europa, eppure raccontavano con sereno distacco, sorseggiando la birra, consapevoli di essere lì a cercare soluzioni d’interesse generale, in rappresentanza del proprio paese, in un contesto radicalmente cambiato.
Una serenità da dare i brividi, non tanto per retorica sull’internazionalismo come garanzia di pace, ma per la consapevolezza di come può in tempi brevi cambiare la prospettiva delle cose, se fondata sulla buona volontà.
Parte grazie ai meriti di chi ci ha preceduto sulle nostre terre (non necessariamente antenati di tutti noi Svizzeri), parte per fortuna, abbiamo buone ragioni per andar fieri delle nostre istituzioni, a cominciare dalla democrazia diretta.
Come succede per l’individuo nella famiglia, per la famiglia nel villaggio o col vicinato, per il comune nella regione o il cantone nella Confederazione: un sano senso di autodeterminazione deve necessariamente accompagnarsi con la considerazione degli interessi altrui e dei compromessi da trovare. La fierezza per la propria diversità ed autonomia può far compiere miracoli, ma anche disastri, se non si ha il senso della misura.
A preoccupare non è tanto la diffusa retorica antieuropea, riflesso dell’antipolitica che trova ampia giustificazione nel ruolo e nei privilegi della classe politica in tanti paesi. Ma piuttosto la miopia propositiva che l’accompagna: rifugiati? Basta tirar su una ramina più alta di quella degli altri. Disoccupazione? Basta con l’esposizione alla concorrenza internazionale, alla globalizzazione, torniamo all’autarchia: un’acciaieria a Bodio e una filanda a Mendrisio; e precedenza ai Nostri per andarci a lavorare. I nipoti ci saranno riconoscenti.
Qualche decina di migliaia di Ticinesi vive e lavora all’estero, in Europa soprattutto. Libertà non è solo far quel che ci pare nei nostri confini, ma anche offrire il massimo di opportunità, qui o altrove, a chi in questi confini è cresciuto o ci vive.
*Segretario di Stato, articolo pubblicato su Opinione Liberale