POLITICA E POTERE
Governo, Parlamento e partiti. Il "sermone" di metà legislatura di Sergio Morisoli: "Lega vittima del suo enorme successo e il PLR sconfitto e impotente, sono le due facce della stessa medaglia"
Il presidente di Arealiberale ci scrive: "Le sezioni, i comitati e le direttive cantonali dei partiti di Governo che fanno? Boh. Attendono il prossimo scandalo per tirar là fino al prossimo turno elettorale. Sui temi sono spenti. Sperano nell’oro della BNS, sperano che la scuola non verrà, sperano che lo statalismo e il protezionismo ci salvino dallo stress e dall’azione dei frontalieri… e si infuocheranno solo quando si tratterà di fare le liste elettorali dei nomi l’anno prossimo, come se poi tutto cambi
Ti Press

di Sergio Morisoli

 

Governi forti o deboli?

 

Esagero. Questo Governo comincia a starmi simpatico. Perché? Perché è impacciato, è mansueto,  è colpevole ormai di tutto, anche di non riuscire a fare quello che non toccherebbe a lui fare. I partiti di Governo trattano i cinque Consiglieri di Stato spesso come loro figli illegittimi, come se non fossero stati eletti sulle loro liste e votati dai loro elettori. Per i gruppi parlamentari, sempre dei partiti di Governo, i Consiglieri di Stato formano un altro partito, da sconfiggere con fuochi incrociati. E la parola magica concordanza, che tradotta significa mal comune mezzo gaudio, un tempo usata come balsamo è ora usata a corrente alternata. Il Gran Consiglio poi è eternamente inconcludente è impegnato a capire se è nato prima l’uovo o la gallina (imposte o spesa, colpa loro o colpa nostra)), per poi spiegarlo al Governo. 

 

Le sezioni, i comitati e le direttive cantonali dei partiti di Governo che fanno? Boh. Attendono il prossimo scandalo per tirar là fino al prossimo turno elettorale. Sui temi sono spenti. Sperano nell’oro della BNS, sperano che la scuola non verrà, sperano che lo statalismo e il protezionismo ci salvino dallo stress e dall’azione dei frontalieri…  e si infuocheranno solo quando si tratterà di fare le liste elettorali dei nomi l’anno prossimo, come se poi tutto cambierà per magia. Tutti questi organismi, enti e strutture non possono proprio far niente salvo aspettare che il Governo faccia?   Il Consiglio di Stato cosa deve fare? Nella migliore delle ipotesi deve governare, cioè promuovere, progettare, ideare quelle misure e condizioni per generare benessere e prosperità, questo non lo sta facendo. Nella peggiore delle ipotesi deve amministrare, cioè mandare avanti il presente senza sprecare troppi soldi e creare troppi pasticci; è quello che sta cercando di fare, ma non ce la fa. Sarebbe stato diverso se dalle urne usciva un altro quintetto? Forse, ma non è detto. La crisi della politica è profonda, la confusione dei ruoli istituzionali enorme, le maggioranze non servono più, e vincere le elezioni conta più del governare poi. Come sempre di questi tempi, sono i conti dello Stato a tener banco. Manovre di risanamento messe all’incanto: chi offre di più. 

 

Ma i conti sono soltanto la materializzazione di una politica si spendereccia, si inefficacie, si inefficiente, si forse anche clientelare ma soprattutto di una politica inesistente. I conti tornano se le politiche settoriali sono giuste e buone. E chi dovrebbe produrre e imporre politiche settoriali giuste e buone, il Governo? Nei sistemi totalitari si; ma da noi no. Qui forse sta un primo problema. Dipendiamo tutti dal Governo e dalla cabala elettorale oppure il Governo dipende da noi e da ciò che noi gli chiediamo di fare? Il Governo è l’esecutivo, cioè esegue ciò che gli altri gli dicono di fare. Ma chi sono gli altri? Vedi sopra. A seconda dei quadrienni a volte ci sono Governi iperattivi, altre volte mosci. La Svizzera e i Cantoni, per fortuna, non sono strutturati istituzionalmente per far dipendere il benessere dei cittadini dai Governi. 

 

Pretendere che il Governo debba essere trainante, leader, faro alle nostre latitudini è un’invenzione mediatica, oppure un modo per schivare l’oliva di chi dovrebbe fare ma non fa ( vedi ancora sopra) oppure una compiaciuta e comoda deriva statalista degli addetti ai lavori. Dalla mano invisibile del laissez faire privato siamo passati alla mano visibilissima del laissez faire statale. Fa comodo a tutti. Perché mai il Governo dovrebbe tagliare i rami sui quali è seduto (compiti dello Stato)? Perché mai il Parlamento e i partiti dovrebbero fornirgli scale e seghe per farsi male quando fra un po’ li dovrà di nuovo presentare in lista? Troppo facile incolpare il Governo, per i buchi finanziari. E’ il sistema partitico elettorale ad essere ingrippato; la Lega vittima del suo enorme successo e il PLR sconfitto e impotente, sono le due facce della stessa medaglia. E allora forse due punti potrebbero giovare alle finanze pubbliche. 

 

Primo. Poter eleggere un Governo con il sistema maggioritario, ci permetterebbe di sapere cosa vuole spendere prima delle elezioni (un programma) e non dopo come oggi con il copia incolla delle linee direttive. Secondo. Il referendum finanziario obbligatorio, che è appena stato lanciato, permetterebbe ai cittadini di decidere se spendere, prima di farsi aumentare le imposte.         

 

L’origine dei deficit ?

 

Le spese dello Stato non nascono dal nulla, non sono (solo) il capriccio dei funzionari e non sono nemmeno (solo) lo sperpero dei politici. Funzionari e politici a volte ci mettono del loro nel burocratizzare, nello stortare, nel complicare, nel negligere certi compiti, ma nemmeno questo è sufficiente per creare i deficit e i debiti enormi sulle pelle dei nostri figli e  di chi non è nemmeno ancora nato (550 mio da restituire a partire dal 2034!). Se l’amministrazione pubblica fosse una macchina perfettamente efficiente ed efficace nel suo funzionamento aziendale, a pari compiti si potrebbero risparmiare dai 40 ai 50 milioni all’anno. Non sono pochi ma non sono nemmeno molti di fronte ai buchi che si creano con le decisioni o le non decisioni politiche. Qui sta il punto di sempre: agire sul “come” o sul “cosa” fa lo Stato. Sul “come” a ricorrenze più o meno regolari si torna sempre, un esercizio enorme che produce briciole. Intendiamoci, meglio di niente. Sul “cosa” invece non si agisce da decenni, salvo gridare a tutto spiano: è l’ora della revisione dei compiti. Non succede mai nulla ed è normale. E’ impossibile che succeda qualcosa se tutti ritengono che il “cosa” cioè quello che lo Stato controlla, produce e ridistribuisce da ieri, è indispensabile ancora oggi e sarà irrinunciabile anche domani. Se tale è la diagnosi politica non resta infatti che occuparsi del “come” viene controllato, prodotto e ridistribuito questo “cosa”. 

 

Questo è la gabbia dalla quale da decenni non si riesce ad uscire. Inutile fare distinzioni tra partiti, tutti grazie al dipartimentalismo, ci mettono del loro nel perpetuare questo progredire a spirale ascendente. C’è un’aggravante: non si eliminano compiti obsoleti per assumere quelli nuovi, semplicemente si sommano. La spesa è fuori rotta per via della sua dinamica espansiva. Dov’è l’origine di questa dinamica? A ben vedere ci sono due cause. La prima è quella che la società civile da decenni assegna alla politica e quindi allo Stato, sempre più spazi di libertà in campi dove lo Stato proprio potrebbe starsene fuori. Semplicemente, accetta e pretende che pagando le imposte  lo Stato gli risolva i problemi, scoprendo poi invece che glieli complica a prezzi alti. Prima vuole libertà assolute e ovunque per promuovere il proprio individualismo, poi chiede regole e controlli per proteggersi dalle libertà assolute del prossimo per poi scoprire che costano. La libertà individuale assoluta ha un alto prezzo: un’entità superiore che la garantisca a tutti e che ne assuma i danni con relativi costi quando non funziona, la crisi del welfare nasce da qui . Lascio ai sociologhi e agli psichiatri l’approfondimento di questo comportamento individuale e collettivo. La seconda causa è la cultura dei diritti, o meglio l’altra faccia dei diritti, quella nascosta. Il diritto nasceva per porre un limite al potere, ci troviamo invece in un’epoca in cui il potere si alimenta con i diritti. Il bisogno, anche individuale, trova vieppiù la via per diventare rivendicazione collettiva, quindi diritto, quindi politica, quindi Stato e quindi spesa. 

 

 

La politica buona e giusta diventa quella che a maggioranza dice si ad ogni bisogno trasformandolo in diritto, ma è anche quella che riesce a spezzare il legame tra diritti e doveri, minimizzando i secondi. Siccome i diritti, di solito promettono  l’infinito, l’impossibile, la perfezione ed estendono i desideri di tutti, quale apparato burocratico e politico può assumersi il ruolo di andarci contro? Il costo dello Stato esplode non tanto per i “diritti vecchi”(anche), ma per i nuovi diritti sempre più parziali e sempre più singolari proprio come risposta all’individualismo radicale di cui sopra. Come faremo noi politici a ridurre i compiti dello Stato, quindi i costi, quando la piazza è stata abituata a ricevere da tempo ciò che invoca, e chi l’asseconda è premiato?

 

Ma chi la vuole la revisione dei compiti se ci perde?   

 

Non si può fare una revisione dei compiti partendo dai compiti, sarebbe un gatto che si morde la coda. E' un vicolo cieco. La revisione è possibile e credibile se e solo se si parte dall’esame di qualcosa che viene prima dei compiti statali: cioè il rapporto cittadino – stato. In primis nel rapporto nascosto e ai più anonimo del flusso di soldi prelevato con le imposte, tasse e balzelli e la sua ridistribuzione. Volendo, i compiti fisici (produzione, controlli ecc…) che si vedono sono materia di messa in discussione “facile”, ma non è qui il punto. L’enorme flusso di danaro che viene prelevato e ridistribuito è quello del cosiddetto stato sociale (welfare) ormai costosissimo e impagabile senza strozzare lavoratori e imprese; il nostro Cantone non fa eccezione. Nel 2019 saranno prelevati 1'685 milioni di franchi tra imposte, tasse e balzelli e ne saranno distribuiti sotto forma di sussidi 1'737. milioni.  Quando la politica locale non sa più dove parare rilancia il tema della revisione dei compiti dello Stato, sperando che a farla non sia la generazione che la lancia. Questa volta il consociativismo partitico, quello del “tassa e spendi” passato allo “spendi e tassa”, solleva il tema però già escludendo in partenza, pur essendo solo a metà dalla fine della legislatura, quegli approcci e interventi tutt’altro che inefficaci in tema di correzione dei conti come: la diminuzione delle imposte, il blocco della spesa, i tagli lineari, la riduzione selettiva per Dipartimento, la messa in esame e abolizione dei servizi obsoleti, il blocco delle assunzioni, l’out sourcing ecc…L’astuzia, invece di proporre un mix pragmatico, è di concentrare l’attenzione su sole due dimensioni di lettura della politica finanziaria, entrambe destinate ad avere poco successo visto il nostro sistema proporzionale e consociativo: l’aumento delle imposte (tramite il moltiplicatore automatico) e la revisione dei compiti appunto. 

 

L’alibi per il fallimento dell’esercizio è già scritto prima di iniziare: il popolo non vuole altri aggravi fiscali (come è giusto) e la politica congiunta all’amministrazione pubblica non riesce ad uscire dal concetto vacuo della “simmetria dei sacrifici”, che poi i sacrifici sono sempre asimmetrici poiché sono solo i contribuenti che pagano a farli, visto che a chi beneficia di sussidi e aiuti statali è impossibile togliere qualche cosa. Per esperienza, di simmetrico finora abbiamo soltanto visto la crescita, anno per anno, questa sì veramente simmetrica, delle spese nei budget dei singoli dipartimenti. La sinistra e gli statalisti nascosti in ogni partito mettono le mani avanti dimostrando con i numeri che da una parte si sarebbero sgravati troppo i cittadini negli scorsi anni e che quindi sarà giusto ed equo aumentare le imposte del 15% ai 165'000 lavoratori del Canton Ticino, colpevoli di aver svuotato le casse pubbliche non rifiutando i vari pacchetti fiscali del passato. Sanno benissimo che questa proposta è un invito “indecente”, perché le casse non sono vuote e perché nonostante gli sgravi fiscali a questi cittadini sono stati aumentati i premi di casse malati e altri balzelli pubblici e cartellari obbligatori annullando spesso l’effetto dello sgravio per il loro portamonete. Ma proprio per questo, e non nonostante questo, la formulano in modo da poter dire al più presto possibile, dopo una dura reazione dei contribuenti secondo il principio del tanto peggio tanto meglio, che questa prima pista è impercorribile e quindi da scartare. Hanno voluto il moltiplicatore ma sono terrorizzati ( elettoralmente) all’idea di usarlo (salvo Bertoli). Sanno però anche, fiutando un certo rischio, che questa volta se la pista degli aumenti sarà avversata; la revisione dei compiti potrebbe anche iniziare davvero e allora ci mettono in guardi che in ogni caso il DSS non potrebbe in alcun modo essere oggetto di tale indagine, nonostante sia il Dipartimento che spende quasi la metà del budget dello stato! 

 

 

Come? Con i numeri, e in questo non sono secondi a nessuno nel dimostrare con il metodo del socialismo scientifico, dell’ingegnerismo sociale e con l’ipnosi delle cifre che il DSS e le sue politiche sono intoccabili, efficaci, efficientissime e richieste a furor di popolo. Questa magia alla sinistra e agli statalisti riesce da anni nonostante che tutti sanno che il trucco c’è e si vede: aumentare il numero dei beneficiari allargando i criteri o abbassando le soglie di entrata. 

 

Per molti anni, forse troppi, siamo caduti nel trabocchetto della dimostrazione matematica finanziaria della realtà statuale e nel metodo della dialettica marxista come uniche forme di giudizio possibile a riguardo di ciò che lo Stato dovrebbe o non dovrebbe fare. Abbiamo sprecato molto tempo senza mai giungere a molto. Perciò meglio partire dai ragionamenti e dalle premesse che stanno a monte dei numeri e dei calcoli, per  agganciarle ad un ragionamento più esteso a riguardo dei compiti dello Stato. Come disse FrédericBastiat a metà XIX secolo, “Lo Stato, non dimentichiamolo mai, non possiede risorse sue. Lo Stato ha nulla, non possiede nulla al di fuori di ciò che toglie ai lavoratori.” (in Proprieté et loi, Journal des économistes 1848). Infatti non è possibile parlare di casse vuote se vale il pricipio di proprietà naturale rafforzato dal diritto positivo di proprietà privata in cui la ricchezza prodotta appartiene a chi l’ha prodotta (lavoratori e imprese) e non allo Stato.  

 

 

E’ un ragionamento perverso quello di far credere il contrario, ovvero cha allo Stato apparterrebbe tutto e solo grazie alla sua generosità  lascerebbe ai cittadini qualche parte della ricchezza da loro stessi prodotta. In virtù del principio di proprietà privata innanzitutto, ma anche sulla base dei dati continui di Consuntivo,  le casse dello Stato non sono mai vuote e non lo sono mai state. Ad esempio il gettito di imposta delle imprese sarà di 100 milioni all’anno superiore nel 2019 rispetto al 2005 ( da 270  a 370 mio all’anno). Come dire poi che le casse sono vuote e che la colpa è dei cittadini-contribuenti (circa 180'000) quando le imposte pagate oggi da tutti loro non sono sufficienti per coprire i salari dei 9'000 dipendenti dello Stato (gettito persone fisiche 973 mio circa e costi del personale 1’012 mio circa all’anno). Inoltre, come si può parlare di casse vuote o di politica fiscale irresponsabile quando avendo ridotto la pressione fiscale mediamente del 30% all’inizio degli anni 2'000, soprattutto per i ceti medio bassi  i proventi fiscali sono aumentati globalmente di quasi il 40%; oppure quando l’8% dei contribuenti paga il 50% del gettito fiscale delle persone fisiche. Forse sarebbe meglio ricalibrare la spesa su ciò che entra (comunque sempre in aumento) invece che proporre nuove spese senza abolirne di quelle vecchie, invocando aumenti di imposte per coprirle, con pena in caso contrario del taglio di servizi pubblici essenziali (ricatto che purtroppo ha funzionato parecchie volte). I paladini delle imposte, perché non ne hanno mai abbastanza, ci hanno regalato il moltiplicatore automatico, e sognano una armonizzazione fiscale federale non solo formale ma anche materiale, il che sarebbe prima di tutto un aumento delle imposte per tutti ma soprattutto la fine del federalismo istituzionale e fiscale svizzero. Cioè la fine della responsabilità e della libertà locale per determinare sia la spesa che le imposte nonché dei rimedi di democrazia diretta per controllare la politica. Questo per sottolineare che la politica fiscale in quanto a significato e incidenza sulla realtà va ben oltre ai paragoni numerici e alla banalizzazione demagogica delle casse vuote. 

 

Tanto per essere chiari val la pena citare un grande teorico del liberalismo moderno, il prof. Pascal Salin: “Per il vero liberale, le imposte sono a priori sospette. Infatti, come indica lo stesso nome, le imposte sono imposte. Rappresentano un prelievo sulla proprietà dei contribuenti, reso possibile dall’esercizio della coercizione e non dal consenso esplicito del proprietario legittimo.”  ( in Liberalismo, ed. Rubbettino).Un altro aspetto molto caro, e non è nuovo, a chi non vorrebbe addentrarsi nella revisione dei compiti dello Stato sarebbe quello che in definitiva a livello cantonale non ci sono grandi margini di manovra politica siccome i compiti più costosi sono determinati da leggi e da ordinanze federali. E’ sempre stato il cavallo di battaglia della sinistra per mai iniziare un’analisi critica e non conservativa dell’offerta pubblica. La logica è che se Berna ordina e sussidia, localmente non si può far altro che eseguire e incassare. Fino a metà anni ’90 circa il 50% delle spese di sussidi erogati in Ticino era coperto da contributi federali, oggi la proporzione è scesa sotto  al 30%. Berna non ha diminuito, o raramente l’ha fatto, la sua parte ma il Cantone ha continuato a spendere ben oltre la parte sussidiata. Perciò non si può affermare che di fronte alla ridistribuzione e all’offerta pubblica ad esempio non ci siano spazi per rivedere alcune cose a livello cantonale. In particolare se si considera che grazie  alla NPF  entrata in scena 10 anni fa, si generano spazi non solo finanziari ma anche di libertà organizzativa ( di leggi cantonali)  e il nuovo riparto dei Compiti tra cantone e Confederazione permette di decidere cosa fare  non fare, non sono stati sfruttati. Si è quindi mancata un’occasione d’oro sulla spinta del progetto NPF per rivedere l’offerta pubblica ticinese. I vincoli legali fissati poi dalle leggi cantonali sono facilmente sormontabili se si analizzassero i risultati raggiunti da determinate normative dopo un periodo di tempo adeguato (sunset  legislation), in modo da produrre dati circa l’efficacia e l’efficienza delle scelte politiche fatte e per ricalibrare regolarmente e criticamente le risorse impiegate. 

 

Ad esempio non ci si può estraniare a priori da un lavoro onesto di revisione dei compiti dello Stato nemmeno nei settori sensibilissimi del DSS dimostrando con le cifre che tutto ciò che viene fatto è utile, indispensabile e insostituibile e quindi evitare l’analisi e il giudizio. Non si può procedere per singolo centro di costo e dimostrare che spesa e beneficiari sono altamente correlati, e perciò se crescono i secondi ci vogliono semplicemente più soldi per fare servizio pubblico, è una corsa al rialzo infinita; ma l’approccio giusto è l’analisi  per politiche. Ad esempio i mezzi a disposizione dell’assistenza crescono di anno in anno (107 milioni) e la piaga di questa situazione non rallenta. Oppure come si può non entrare in materia di verifica periodica e oggettiva dell’efficacia e dell’efficienza dei mezzi erogati per la politica famigliare (51 milioni) quando: il tasso di natalità diminuisce, le interruzioni di gravidanze annuali e notificate in Ticino purtroppo sono altes (1 su ogni 4 nati viene abortito), i divorzi erano 1 su 3 matrimoni nel 1990 e sono 1 su 2 attualmente, le economie domestiche non famigliari in senso stretto erano 55'000 nel 2000 e 62'000 oggi, e quelli di una persona sola sono passate da 44'000 a 57’000, le “famiglie” monoparentali sono oltre 12'000, ogni anno vi è un contributo dello stato per alimenti ai divorziati o ai separati di  milioni e si potrebbe continuare. Per la questione difficilissima della sanità, tempo fa il Patriarca di Venezia card. Angelo Scola ebbe ad affermare ( vado a memoria): “il fatto che una volta vi fosse una salute privata e una salvezza pubblica mentre oggi c’è l’idea di salvezza privata e di salute pubblica, non può lasciare indifferenti nell’indagare questa trasformazione e le sue conseguenze” (concetto sviluppato dall’allora Patriarca di Venezia in “Se vuoi puoi guarirmi”, ed Cantagalli), quindi un barlume un tentativo di speranza contro la posizione del “non poter far niente” frustrante e pieno di impotenza di fronte all’esplosione del costo per la salute; senza restare  pietrificati dal contenzioso con le casse malati, ci può essere. Come non si può non entrare nella verifica, sempre solo perché giustificato di  utile e necessario, di un impianto ridistributivo di contributi sociali in senso stretto (diretti alle persone) che al lordo è passato dai 480 mio del 2005 ai 732 milioni. Oppure i 231 milioni erogati alle organizzazioni private senza scopo di lucro. Non mi dilungo con altre cifre ed esempi, non è la sede, ma è la “spia d’allarme si accende” perché una spesa generale di ridistribuzione, trovabile in ogni dipartimento, che è aumentata di oltre il 70% in 10 anni e che comporta oltre 150 mio di costi di apparato per erogarli non può non rientrare nella revisione dei compiti, solo perché la si definisce necessaria. 

 

Come non può bastare, soprattutto in un ottica progressista, dimostrare con le cifre che non si può cambiare nulla né nel cosa né nel come dell’offerta pubblica ma bensì ci si può solo chiudere a riccio in un atteggiamento degno del peggior conservatorismo rivendicando solo più mezzi finanziari per garantire lo statu quo, escludendo ogni speranza legata a possibili cambiamenti delle regole del gioco e negando l’entrata in scena della società civile e del principio di sussidiarietà come via percorribile per dei servizi pubblici più su misura, forse più economici e più plurali e quindi promotori della libertà di scelta dei cittadini. Menzionare poi che lo stato generosamente già oggi eroga molti milioni di franchi ad associazioni private non profit dimostra che il non profit è ritenuto utile  e rispettato solo in una visione statalista e finché rispetta i dettami imposti dallo Stato, ma non ha poco valore in sé poiché non è riconosciuto come entità che viene prima dello Stato. Caso mai è da questo tollerato, prova ne è che  traboccano le  intenzioni di statalizzare anche quel po’ che rimane del privato culturale, educativo, sociale e sanitario; evidentemente con il fine “finto buono” di garantire la solita parità e qualità di trattamento in tutto il territorio. Vale la pena menzionare a questo proposito un breve passaggio dell’Enciclica di Benedetto XVI Deus Caritas est: “Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un’istanza burocratica che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente-ogni uomo-ha bisogno: l’amorevole dedizione personale. Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto.”

 

Come poi non procedere ad impostare diversamente anche le leggi che sussidiano staccandosi dal concetto incentrato sul controllo dell’ in put per concentrarsi sull’out put. In altre parole alleggerire leggi e magari mezzi finanziari ma dare più libertà nel modo di organizzare la produzione dell’offerta pubblica da parte dei soggetti pubblici o privati che siano, per concentrare invece il controllo statale sui risultati. In quest’ottica, en passant, un capitolo fondamentale dovrebbe essere totalmente riscritto anche per il settore scolastico pubblico che da anni non riesce a produrre da solo e al suo interno, quel valore aggiunto di innovazione concettuale per  rilanciarsi a piena soddisfazione di docenti, allievi e genitori; magari valorizzando, imitando e riconoscendo i “best practice” della scuola privata. Falso e deviante sarebbe invece ricondurre tutto alla mancanza di soldi, quando le idee e i progetti sono avvincenti poi di solito i soldi si trovano. Da ultimo perché credere che gli unici capaci di socialità siano i partiti e i politici di sinistra (ormai sempre più in senso lato) e che quindi questi territori pubblici  non possono, per la logica descritta sopra, che essere un loro eterno dominio? Ci sono validi esempi di politica sociale, sanitaria e scolastica di successo anche proposta e attuata dal centro destra in giro per il mondo, che potrebbero dare a noi alcune idee.

 

Sia chiaro che con la revisione dei compiti, non è detto che automaticamente tutte le spese diminuiscano, ma sarebbe già positivo che, ceteris paribus, la spesa fosse ripulita e riallocata con delle priorità strategiche. Non si tratta necessariamente di spendere meno ma di spendere meglio (vedi Modernizzare lo Stato, GdP dicembre 2005). Lo scopo primo è quello di rispondere alle nuove esigenze, di abbandonare compiti vecchi che prosciugano risorse inutilmente, di accettare nuovi metodi di produzione di servizio pubblico, di far entrare il privato nell’erogazione e nella produzione dell’offerta pubblica, di generare pluralità e differenziazione dell’offerta. In derivata può entrare anche la logica della minor spesa. 

 

Nel lontano  maggio 2004 quando la Divisione risorse del DFE propose uno studio dal titolo: “Offerta pubblica: proposte di correzione del come e del cosa”, si iniziò una nuova era per l’avvicinamento alla revisione dei compiti dello Stato. Infatti per la prima volta si usciva con quel documento dalla logica del dipartimentalismo e oltre ad occuparsi come si fece per un decennio del “come” lo Stato svolge i propri compiti si ebbe il coraggio di proporre anche il “cosa “ lo stato doveva fare. Si individuarono 4 categorie classiche di compiti: ridistribuzione (aumento in 10 anni del 70%), controllo (+8%), produzione (+12%) e altri (+10%), che si analizzarono secondo una visione a 360 gradi quanto alle possibilità di revisione, cioè senza preconcetti tra pubblico e privato e sia dal punto di vista finanziario che politico. Si poterono così individuare almeno 14 macro misure per intervenire sulle oltre 500 attività analizzate e individuate come meritorie di cambiamento.  Inutile parlare ora di revisione dei compiti e ricominciare con la litania delle analisi tecniche, gli armadi sono pieni di questo genere di approfondimenti. Prima dei numeri ci vuole un corposo dibattito politico affinché prima dell’agire politico centralizzatore e statuale, sia riconosciuta e legittimata di nuovo la prevalenza della struttura e della gerarchia naturale del vivere in comune: persona-famiglia-associazioni-imprese-e solo dopo lo Stato, con il relativo principio di sussidiarietà che le lega. Ricordando poi che il diritto positivo discende dal diritto naturale e che quindi le leggi non possono essere solo democraticamente definite giuste a maggioranza e per questo foraggiarle finanziariamente in perpetuo,  ma che devono essere anche buone nel senso del bene comune minimizzando il rischio della tirannia della maggioranza democratica (Tocqueville) Questa impostazione e garanzia dovrebbe attuarsi concretamente revisionando tutte  le leggi e i regolamenti secondo questo ordine di società naturale, compito principe del legislativo prima e dell’esecutivo poi; solo ripristinando formalmente e legalmente questo ordine in tutte le discipline, farebbe poi senso parlare di revisione dei compiti secondo questa rotta. 

 

 

Oggi purtroppo il tentativo in atto, senza troppi proclami ma con i fatti, è quello di eliminare ogni livello intermedio di aggregazione spontanea e qualificata tra lo Stato e il cittadino facendo prevalere il primo in una logica molto neo giacobina soffocando il moto naturale della sussidiarietà. Secondo Wilhelm Röpke, “lo statalismo, cioè quella concezione dello stato secondo la quale l’individuo è nulla e lo stato è tutto, che privilegia un permanente disequilibrio tra l’individuo e la collettività a vantaggio di quest’ultima, è da consoderare un male pericoloso perché fonte di immoralità e sprechi, un male che camuffa la sua pericolosità sotto il volto apparentemente benevolo dell’assistenzialismo.” ( in Umanesimo liberale). Che dire poi della questione che le leggi prevedono nettamente più diritti che doveri? Generando la cultura, l’”habitus” e poi l’organizzazione dell’intervento pubblico che favorisce l’idea nel cittadino che può tenere disgiunta la libertà dalla responsabilità individuale, poiché quest’ultima è assunta dalla collettività con i relativi oneri sociali e finanziari. Un lavoro serio e mirato di revisione dei compiti, se vuole essere tale, non potrà prescindere dall’iniziare con l’obiettivo enorme di revisione politica e culturale delle nostre leggi e non con una nuova guerra delle cifre. I servizi, l’offerta pubblica, gli apparati, le procedure, i costi, le disfunzioni, il numero di funzionari, la burocrazia e in ultima analisi i deficit e i debiti  discendono tutti da leggi votate a maggioranza e da qui non si scappa, la genesi dei compiti dello Stato è qui. Per ora si è proceduto, poi interrotta solo all’analisi formale delle leggi, ma il dunque è ben altro. 

 

Fosse per noi inizieremmo subito dalla riforma del welfare e della scuola; semplicemente perché la realtà ci dice che: da una parte la popolazione invecchia, di figli non se ne fanno, le famiglie si sfasciano, le persone sono sole, l’inforestieramento della popolazione è irreversibile, la violenza è all’ordine del giorno e l’emarginazione aumenta; dall’altra perché senza un nuovo slancio educativo sarà difficile avere generazioni che si occuperanno adeguatamente della loro vita e essere poi d’aiuto e solidali con la casistica precedente. Tutto questo, purtroppo, né la politica né lo Stato non lo possono fare da soli, ma occorre che la società civile sia richiamata proprio da chi l’ha esclusa, la politica, a essere di nuovo attrice protagonista.

 

Sperando che sia la volta buona per la revisione dei compiti e in attesa che il tutto possa mettersi in moto, per non rimanere con un pugno di mosche in mano, non andrebbero comunque scartati a priori i vecchi strumenti di controllo finanziario come il blocco della crescita o la crescita moderata della spesa e non andrebbe nemmeno esclusa e demonizzata una possibilità di diminuire miratamente le imposte. In definitiva rimane solo un modo per provocare l’esercizio della revisione dei compiti: dare meno soldi allo Stato ( tramite sgravi e blocco delle tasse) e fare in modo che faccia fatica a spenderli (referendum finanziario obbligatorio). Significa gestir ee allocar emeglioi soldi che già ha. Concludiamo con le parole di un liberale che ha partecipato in prima persona politicamente alla ricostruzione della Germania distrutta dalla guerra, Wilhelm Röpke: “Anche lo Stato più sano, ripetiamo, anche la morale più resistente e la società più robusta sopportano una misura massima di attività statale e di investimenti statali. Oltrepassata questa misura, il disgusto dello Stato, il disprezzo della legge e la corruzione si propagheranno sempre più e finiranno per avvelenare tutte le arterie della società.” (in Civitas humana, Parte II cap 18, 1944) 


*presidente Arealiberale

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