Fabio Regazzi, discorso agli industriali, alla politica e ai sindacati: "Basta tradurre le paure dei cittadini in proposte populiste e leggi raffazzonate. Usiamo la testa e non la pancia. Basta bugie e giudizi sommari verso l'economia. Governo e Parlamen
Il presidente dell'AITI: "Il nostro invito d’imprenditori al Consiglio di Stato e al Gran Consiglio, dunque alla politica, è di tornare ad usare maggiormente la testa per riappropriarsi del buon senso, e di smettere di rincorrere un effimero consenso politico di breve termine che non aiuta le cittadine e i cittadini ad avere fiducia nel futuro del nostro paese"
Foto: TiPress/Davide Agosta
di Fabio Regazzi * (discorso pronunciato all’assemblea dell’Associazione industrie ticinesi)
Filo conduttore della mia relazione è la tendenza sempre più marcata, sia del mondo politico, sia sindacale e in alcuni casi anche economico, a voler far credere che conta di più quello che la pancia della gente percepisce o le viene comunicato, vero o falso poco importa, che spiegare le diverse sfaccettature di un medesimo problema, che una pancia digerirebbe con difficoltà.
È innegabile che nella pancia dell’opinione pubblica si annidano umori e malumori, disagi e insoddisfazioni, critiche e risentimenti che, molto spesso, hanno concrete fondamenta e che non devono essere in nessun modo trascurati e snobbati.
Allora, senza necessariamente ignorare le pulsioni emotive che scuotono questo cantone, ai politici come ai dirigenti di azienda, dobbiamo avere il coraggio di chiedere di ascoltare soprattutto la ragione.
I fatti: un 2016 difficile, un 2017 probabilmente migliore
Per evitare di attenersi alle sole percezioni, la miglior cosa è analizzare i dati. Le conseguenze della decisione della Banca nazionale svizzera di eliminare la soglia minima di cambio di 1.20 franchi per euro sono state immediate e i loro effetti si fanno sentire ancora oggi. In pochi secondi la Svizzera è diventata più cara del 15-20%. I clienti delle nostre imprese non hanno tardato a manifestarsi e hanno richiesto sconti sui prezzi, anche sui contratti di fornitura già sottoscritti in precedenza.
Le imprese sono state costrette a mettere in campo tutte le forze migliori per ridurre i costi, ottimizzare gli acquisti in euro, mantenere quelle parti di vendite ancora possibili in franchi svizzeri, andare alla caccia di nuovi clienti e mercati, investire ancor più in tecnologie di prodotto e di processo.
In pochi anni l’economia svizzera ha conosciuto una rivoluzione: da 1.50 franchi per euro a circa 1.10 franchi per euro. Siamo sopravvissuti a questo cataclisma e continuiamo a guardare al futuro con la speranza di rafforzare la nostra competitività.
Ma dove troviamo tutte le energie? In un misto di sentimenti che sono l’espressione della nostra capacità imprenditoriale, degli sforzi attuati e da attuare per fare crescere le nostre imprese, della convinzione che le nostre collaboratrici e i nostri collaboratori meritano non solo un posto di lavoro, ma soprattutto la consapevolezza di fare parte di una famiglia che costruisce il nostro futuro e che si aiuta nei momenti critici.
Il 2016 è stato un anno difficile per l’industria ticinese, che si è mossa secondo andamenti differenziati: più dinamicità per i rami votati all’esportazione, maggiori difficoltà per le attività orientate al mercato interno.
Abbiamo dimostrato di saper fare fronte alla forza del franco e alla debolezza dei nostri mercati di riferimento, ma il prezzo da pagare è stato alto e rischia di minare alle fondamenta la nostra capacità competitiva. Difficile ad esempio trovare ulteriori margini di manovra in futuro sul fronte della razionalizzazione dei costi.
Difficile poter contare su margini di guadagno migliori quest’anno e nel 2018. Difficile immaginare molte nuove assunzioni nelle nostre imprese. Come dimostrano tutti gli indicatori le aziende più in difficoltà sono proprio le piccole e medie imprese, cioè la gran parte dell’economia ticinese.
Pur persistendo numerose ombre sulla congiuntura, cogliamo però anche segnali positivi, che si sono manifestati già a partire dal quarto trimestre 2016. I principali indicatori economici testimoniano una ripresa complessiva degli affari soprattutto per l’industria d’esportazione. Gli ordinativi sempre globalmente – e dunque con 3 sfumature anche ampie da un ramo d’attività all’altro – sono in crescita, lo sfruttamento degli impianti aumenta. Pur restando prudenti il 2017 dovrebbe comunque essere migliore dell’anno precedente. Ma la Svizzera, le istituzioni e la politica devono lavorare ancora molto sul consolidamento delle condizioni quadro.
È fondamentale creare un clima di collaborazione tra governo e il settore privato perché – come ha dichiarato Dani Rodrik, professore di economia politica internazionale all’Università di Harvard – “la politica industriale è un atteggiamento mentale più che un elenco di politiche specifiche”, precisando anche che una politica industriale deve essere attuata in modo trasparente e responsabile, ed entro i limiti della legalità mi permetto di aggiungere.
Questo aspetto mi consente di passare al secondo punto della mia relazione.
Il rispetto della legalità
Negli scorsi mesi, e ancora di recente lo ha spiegato forte e chiaro Michele Rossi in un intervento sul Giornale del Popolo, il mondo economico ha avuto più occasioni per esprimere perplessità, se non addirittura sconcerto, di fronte a decisioni politiche che sono in contrasto con le leggi, il diritto superiore e gli accordi internazionali sottoscritti dalla Svizzera e sostenuti dal popolo svizzero in votazione a diverse riprese.
Da queste decisioni emerge che la legalità non è più considerata un pilastro imprescindibile della nostra democrazia e della convivenza civile. Oggi bisogna prima di tutto parlare alla “pancia” delle elettrici e degli elettori di cui dicevo in entrata, e fare politica cogliendo le percezioni dell’elettorato.
Lo scollamento fra le regole stabilite dalle leggi e le soluzioni ai problemi che i cittadini si attendono è sempre più netto. Diventa vieppiù difficile comprendere come sia possibile sanare questa distanza senza dover prendere decisioni drastiche e gravide di conseguenze negative, come ad esempio anche solo pensare di disdire l’accordo sulla libera circolazione delle persone e dunque gli accordi bilaterali fra Svizzera e Unione europea.
Che messaggio diamo ai cittadini, ma anche ai giovani, agli imprenditori e agli investitori svizzeri ed esteri quando maltrattiamo le nostre leggi, persino la nostra carta costituzionale, per piegarle al presunto volere popolare? E sono davvero sicuri, i politici, che la traduzione della paura e dello smarrimento dei cittadini in proposte populiste e leggi raffazzonate sia la risposta migliore? Il non rispetto della legalità va – purtroppo – di pari passo con l’accentuarsi della burocrazia; allo stesso modo dei cittadini che hanno paura di perdere il posto di lavoro, anche l’amministrazione ha paura di fare errori e così si barrica dietro la costruzione di leggi e regolamenti che applica pedissequamente con un rigore quasi maniacale.
Il risultato è che il buon senso – che nelle passate generazioni ha guidato l’agire di chi ci ha preceduto – è diventato merce rara. Il nostro invito d’imprenditori al Consiglio di Stato e al Gran Consiglio, dunque alla politica, è di tornare ad usare maggiormente la testa per riappropriarsi di questo buon senso, e di smettere di rincorrere un effimero consenso politico di breve termine che non aiuta le cittadine e i cittadini ad avere fiducia nel futuro del nostro paese.
L’economia di questo Cantone è sempre stata disponibile a dialogare con le istituzioni e la politica; vorremmo che ciò sia una costante dei prossimi difficili anni.
Il temuto ritorno delle politiche neo-protezionistiche e “primanostriste”
Il successo delle forze politiche populiste e nazionaliste nel mondo e in Europa raccoglie la rabbia di molti cittadini e degli esclusi, tramutata in disprezzo per le élites economiche e politiche rispetto a quella parte della popolazione sempre più ampia che si sente tagliata fuori dal benessere e dal progresso.
Rivolgendomi alla testa dei cittadini li invito a diffidare delle ricette che si propongono di ergere muri e barriere alle frontiere e a riconoscere che protezionismo e dazi non hanno mai sortito, sul medio e lungo termine, alcun vantaggio economico per le nazioni e i loro cittadini.
A maggior ragione in un paese come il nostro, povero di materie prime, che deve fare leva necessariamente sull’intelligenza e il sapere delle persone, sulla propria grande capacità competitiva, sullo spirito imprenditoriale e l’innovazione tecnologica. Il nostro è un paese che vive d’esportazione, non possiamo dunque permetterci di sigillare i nostri confini.
Dobbiamo però avere il coraggio di ammettere che la globalizzazione, di cui hanno beneficiato in molti, provoca disagi e perdenti anche tra le stesse aziende. Una piccola e media impresa, ancor più dopo il rafforzamento del franco svizzero intervenuto all’inizio del 2015, soprattutto se fornitrice di multinazionali e grandi gruppi industriali, è in balia delle loro decisioni e dei repentini mutamenti dei mercati.
Pensiamo ad esempio alla difficoltà di reperire le necessarie materie prime quando una potenza economica come la Cina determina con le sue decisioni la disponibilità di determinati metalli o il prezzo mondiale dell’acciaio.
Qual è la risposta dell’impresa a queste sfide? Sicuramente l’innovazione, certamente la produzione personalizzata, ovviamente il servizio di qualità alla clientela.
Ma tutto questo, per quanto sia utile e importante, non basta. Un altro fattore è diventato fondamentale: la flessibilità. Essere sul mercato, produrre, servire il cliente soddisfare le sue sempre più accresciute esigenze, è oramai il paradigma più importante che caratterizza l’impresa moderna. Essere flessibili è un fattore decisivo di competitività ma anche una condizione che mette a dura prova le relazioni dell’impresa, al suo interno come al di fuori di essa.
E’ chiaro che un’azienda sopravvive e cresce economicamente se sa andare al di là delle sue normali capacità di funzionamento. Flessibilità significa anche produrre quando serve, reagire a breve termine alle mutate condizioni dal punto di vista dei mercati e dei fattori di produzione. Inevitabilmente la moderna flessibilità rischia fortemente di scontrarsi con le regole contrattuali e del mercato del lavoro.
A scanso di equivoci con flessibilità non intendo che il lavoratore debba essere sempre a disposizione dell’impresa: si tratta di trovare un ragionevole compromesso fra le reciproche esigenze. Non si tratta quindi di trasformare l’uomo in una macchina che risponde al volere dell’azienda; si tratta piuttosto di saper rispondere in termini di dedizione, di disponibilità ed efficienza alle molteplici sfide aziendali.
Purtroppo per una parte del sindacato, flessibilità suona ancora solo come una parola blasfema. Su questo fronte mi aspetterei maggiore apertura da parte dei rappresentanti sindacali: un irrigidimento eccessivo nuocerebbe alle aziende e di riflesso agli stessi lavoratori che dichiarano di voler difendere. Oggi credo che uno dei temi di confronto principali fra le parti sociali sia diventato proprio quello della flessibilità. I rappresentanti dei lavoratori, ma certamente anche lo Stato e i suoi cittadini, dovrebbero riconoscere che oggi fare impresa comporta una disciplina maggiore rispetto al passato, una capacità forte di contribuire tutti insieme al bene dell’azienda.
Occorre in altre parole riconoscere quel bisogno oramai assurto a conditio sine qua non per la sopravvivenza dell’azienda, di dover sempre più fare leva sulla flessibilità di dirigenti e collaboratori.
Il costo dei falsi miti e il bisogno di una truth economy
“Alcune persone vedono un’impresa privata come una tigre feroce da uccidere subito, altri come una mucca da mungere, pochissimi la vedono com’è in realtà: un robusto cavallo che traina un carro molto pesante”. Questa frase celebre presa a prestito dal primo ministro inglese Winston Churchill colui che aveva avuto il coraggio di dire ai suoi concittadini, “Non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore”, mi dà la possibilità di introdurre il tema dei falsi miti nel mondo economico.
Il falso mito della responsabilità oramai diffusa dei frontalieri riguardo a un andamento economico che si vuole solo leggere come negativo. Quello di un “primanostrismo” assurto a mantra per giustificare il falso mito che solo con la priorità data agli indigeni risolveremo il problema della disoccupazione. Un dibattito che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro e generato importanti costi a carico dei contribuenti per produrre il nulla o quasi (come ad esempio una proposta per una norma di legge, che vuole impedire a Banca Stato o all’AET di assumere frontalieri…).
O quello della tassa sui parcheggi, spacciata come misura anti-traffico e quindi ecologica, quando in realtà era ed è soltanto un modo per fare cassetta, come sembrano nel frattempo essersi accorti anche i sindacati degli impiegati dello Stato.
Quanto alla LIA, dobbiamo constatare che, a parte aver aumentato il carico burocratico alle aziende, essa è oggetto di parecchi ricorsi, fra i quali anche da parte della Commissione della concorrenza (COMCO) perché violerebbe la legge federale sul mercato interno (LMI).
Se la verità ha un valore che non si può quantificare, anche la falsità non scherza: ore di lavoro, incontri, riunioni, analisi, note nel tentativo – non sempre riuscito – di contrastare alcuni dei falsi miti elencati, e le loro conseguenze negative.
Il risvolto positivo della "fake economy" è forse una "truth economy"? Una recente ricerca di un centro di studio del giornalismo di Oxford constata che la 6 consapevolezza e la preoccupazione in tema di false notizie "rafforzerà" i media della notizia verificata, perché così torneremo ad avere ancora sete di notizie di qualità.
Vogliamo quindi credere che il business della falsità, una volta scoperchiato, alimenterà la domanda di verità? Mi piace pensare che sarà così, ma staremo a vedere.
Anche la tesi che vorrebbe un rapporto di fiducia incrinato tra imprenditori e cittadini ticinesi sembra non reggere davanti ai dati. Una recente ricerca dell’Osservatorio della vita politica regionale di Losanna (sulle votazioni ticinesi del 25 settembre 2016: “prima i nostri” e “basta con il dumping salariale in Ticino”) rivela che in generale una percentuale di circa il 70% degli intervistati esprime una fiducia media o elevata nei confronti degli imprenditori e delle associazioni padronali.
Addirittura la fiducia è più elevata per gli imprenditori che per le associazioni. Le condizioni di partenza per il dialogo mondo economico e cittadinanza sono tutto sommato favorevoli e costituiscono una buona base per rivolgerci con credibilità alla testa dei cittadini, spiegando il nostro impegno nei confronti di partner istituzionali, fornitori, clienti e collaboratori anche su temi sociali.
Se non possiamo mai dimenticare che lo scopo di fare impresa è quello di generare profitto, con il quale finanziare gli investimenti e assicurare la continuità, diventa sempre più importante coniugare questa esigenza con l’essere azienda in quanto attore socialmente responsabile sul territorio.
Ed è proprio con questo spirito che AITI, unitamente alla Camera di commercio, è stata favorevole all’inserimento di misure sociali nel pacchetto della Riforma fiscale III delle imprese presentato per il Ticino dal Dipartimento finanze ed economia, che il popolo ticinese ha poi approvato lo scorso 12 febbraio in controtendenza con il resto della Svizzera.
Il responso anomalo di questo scrutinio – che ha posto il Ticino un po’ a sorpresa con altri due cantoni favorevoli all’introduzione di sgravi fiscali alle imprese – non può lasciarci indifferenti. Quando le aziende e le associazioni dimostrano responsabilità e impegno concreto nel sostenere misure sociali a vantaggio dell’intera società – come ad esempio misure di reinserimento professionale, di conciliabilità famiglia e lavoro – le nostre richieste a sostegno di una minore pressione fiscale vengono meglio percepite dalla popolazione.
Il mio invito alle nostre imprese è dunque quello, con tutte le attenuanti e giustificazioni del caso, di non prendere immediatamente la scorciatoia dei tagli finanziari e sociali senza un’adeguata ponderazione di tutti i fattori in gioco.
Vi invito anche ad essere trasparenti verso i collaboratori, di superare pregiudizi e false notizie, per motivare l’origine delle decisioni difficili che devono a volte essere prese, di coinvolgere le maestranze nei sacrifici ma pure nei successi dell’azienda: in definitiva, come amo ripetere, siamo tutti sulla stessa barca.
La cura profonda della relazione fra l’azienda e i suoi collaboratori deve giocarsi anche sul piano della trasparenza nelle relazioni e della verità, per essere a suo modo un fattore di competitività dell’impresa.
Come AITI proprio quest’anno abbiamo iniziato a proporre momenti di formazione e condivisione con le imprese che concernono ad esempio la cura della relazione fra l’azienda e i rappresentanti dei lavoratori; oppure la gestione delle situazioni di crisi a seguito 7 di difficoltà congiunturali. Riteniamo che una gestione attiva dei diversi fenomeni da parte dell’azienda sia un atto di responsabilità verso se stessa ma anche verso i propri collaboratori e clienti.
Mi avvio alle conclusioni: in definitiva cosa chiediamo noi imprenditori? Chiediamo solo una cosa: maggiore riconoscimento da parte delle istituzioni di questo Cantone, dell’opinione pubblica per tutto ciò che l’impresa fa in quanto creatrice di lavoro, di benessere per le persone e il territorio, per la crescita economica, sociale e civile del nostro paese. Cosa chiediamo invece allo Stato?
Niente di più che tornare a svolgere il suo ruolo naturale: garante delle regole, sanzionatore delle infrazioni stabilite dalle leggi, promotore dello sviluppo economico attraverso la messa a disposizione di condizioni-quadro certe, solide e lungimiranti. Chiediamo a Governo e Parlamento di usare la ragione dimostrando maggiore coraggio: per spiegare, argomentare, valutare, e a volte magari anche per cambiare idea e suggerire soluzioni diverse. Parlare alla testa dei suoi concittadini, elettori e oppositori, è l’unica vera ricetta democratica. Non funzionerà sempre, ma sempre contribuirà a un dibattito civile e a fare crescere culturalmente la cittadinanza.
Il tempo dei giudizi sommari e ingiustificati verso l’economia è davvero finito. Deve tornare a prevalere la conoscenza reciproca e il dialogo costruttivo. In questo senso, il ciclo di visite regolari nelle aziende industriali presenti in Ticino, che abbiamo iniziato circa due anni fa come AITI insieme al Dipartimento delle finanze e dell’economia e al suo Direttore onorevole Christian Vitta, visite alle quali partecipano parlamentari cantonali e a volte anche studenti, è l’esempio lampante che la conoscenza delle rispettive esigenze, la verifica, dati alla mano, delle condizioni in cui le aziende operano, permettono di meglio capirne e condividerne i problemi e bisogni.
Abbiamo dimostrato come imprenditori, ma anche come cittadini, di saper superare molte difficoltà. Non deve quindi mai mancare il nostro esempio di essere imprenditori e la nostra voglia di diffondere la cultura del fare impresa parlando alla testa e non alla pancia. Da parte nostra continueremo a combattere con determinazione e coerenza per difendere la libertà economica e imprenditoriale: ne va del nostro sistema-paese, che abbiamo costruito con fatica ottenendo risultati eccellenti e che tutti ci invidiano. Pur presi da mille incombenze, noi non ci sottrarremo al dovere morale di contribuire, con gli altri attori della società, alla guida di questo nostro amato paese.