L'ANALISI - Finalmente si tenta di dare una risposta alla domanda di fondo: quale Islam vogliamo in Svizzera? Perché, al di là delle provocatorie ed estremistiche tesi di chi pensa che bisogna proibire la religione islamica nel nostro Paese, con questa faccenda bisogna farci i conti fino in fondo, considerando i circa 450’000 musulmani che vivono qui
Il primo è la decisione dell’UDC di dedicare un congresso all’Islam radicale, formulando una serie di proposte restrittive. Dalla chiusura di moschee e centri culturali che diffondono messaggi estremisti, all'incarcerazione dei cosiddetti turisti della jihad al loro ritorno in Svizzera, passando per il monitoraggio dell'operato degli Imam, fino al divieto di sostenere finanziariamente dall’estero istituzioni islamiche presenti nel nostro Paese.
Il secondo indizio è arrivato ieri, con la risposta da sinistra. Intervistato dalla Sonntags Zeitung, il presidente del PS Christian Levrat ha annunciato che il partito ha pronta “una road map per un Islam svizzero”, elaborata insieme “ai rappresentanti della comunità musulmana e a studiosi di religione”. Di che si tratta? Di una via per promuovere una modernizzazione della religione musulmana. A condizione che questa si avvicini ai valori e ai diritti occidentali: in particolare per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani e la parità dei diritti fra uomo e donna.
In concreto: trasparenza nei finanziamenti e istituzione di un percorso di istruzione per gli imam, in cambio di un riconoscimento da parte dello Stato. Se la road map si realizzasse, infatti, ha spiegato Levrat, i musulmani dovrebbero avere diritto “a una rappresentanza nella vita pubblica, a cimiteri, all’ammissione della cura pastorale, all’uso delle aule per l’educazione religiosa e alla tassa di culto. Così come le chiese cristiane nazionali”.
D’altra parte, pur non avendo fortunatamente mai subito alcun attentato, la Svizzera come anche il nostro Cantone, sono stati ampiamente toccata dal fenomeno dall’ideologia jihadista (qui un'approfondimento sul tema con l'esperto Stefano Piazza). In questo non facciamo eccezione dal resto d’Europa. Vuoi per terroristi che sono transitati di qua, vuoi per quelli che sono partiti per combattere nelle fila dell’Isis, vuoi per reclutatori e propagandisti che agivano sul nostro territorio, vuoi per quanto accaduto in alcune moschee e o centri culturali, vuoi, infine, per la presenza di alcune associazioni promotrici di un Islam politico e autrici di campagne di proselitismo come quella della distribuzione del Corano sulla pubblica via.
Tutto questo, notizia dopo notizia, ha inevitabilmente accresciuto il senso di insicurezza in una parte della popolazione. Un recente sondaggio del Blick illustrava come ben il 38% dei cittadini afferma di sentirsi minacciato dai musulmani presenti del nostro Paese. E sia l’UDC che il PS hanno captato questo sentimento popolare, anticipando, ancora una volta, i partiti di centro.
Al di là di come la si pensi, non si può che salutare con estremo favore il fatto che in Svizzera si apra un dibattito ad ampio raggio su questo tema cruciale. Una discussione fondata su proposte concrete e che punta a cercare delle soluzioni che affrontino complessivamente la questione, smettendola di intervenire con i cerottini, sollecitati dall’emergenza della cronaca.
Finalmente si tenta di dare una risposta alla domanda di fondo: quale Islam vogliamo in Svizzera? Perché, al di là delle provocatorie ed estremistiche tesi di chi pensa che bisogna proibire la religione islamica nel nostro Paese, con questa faccenda bisogna farci i conti fino in fondo, considerando i circa 450’000 musulmani che vivono qui, di cui 160’000 con il diritto di voto.
La nostra posizione in materia è chiara, avendola espressa più volte: non esistono ragioni culturali e politiche per le quali la religione islamica debba essere parificata ad altre fedi, le cui radici sono intrecciate e comuni a quelle della Svizzera e dell’Europa. L’Islam è una grande cultura del Mondo, ma non di questa parte del Mondo. E voler omologare tutto, come se tutto fosse uguale, è uno dei vizi peggiori dell’Occidente di oggi.
In questo senso non condividiamo l’idea di fondo dello “scambio” avanzata dal presidente Levrat: un Islam riformato in cambio di un riconoscimento statale. Una parte del mondo islamico, quello che vive in Europa, dovrebbe infatti riformarsi da solo e senza incentivi, poiché la sua forma radicalizzata è già di per sé in aperto contrasto con il nostro codice indennitario e, talvolta, con le nostre leggi. È un processo, e qui Levrat ha ragione, che lo Stato deve assolutamente incoraggiare e assecondare, giocando un ruolo attivo e propositivo (anche solo per un evidente questione di convenienza), ma di sicuro non può essere calato dall’alto e deve nascere dall’interno del complesso e frammentato mondo musulmano.
In questo senso, per una volta, visto che siamo alla vigilia di un dibattito cruciale - e dibattere significa innanzitutto essere predisposti a un confronto con idee diverse dalle proprie - converrebbe focalizzarsi sui punti di contatto, anziché su quelli divisivi. Ad esempio la piena adesione alla nostra democrazia e ai suoi valori di fondo. Un indispensabile regolamentazione del ruolo degli Imam, anche attraverso una formazione. E la questione dei soldi che servono a finanziarie le attività religiose Soldi che, come sempre, sono anche in questo campo un elemento decisivo.