ANALISI
“La verità sul caso Harry Quebert”: la serie tv è un vero disastro
Una regia vecchia, una recitazione scadente e una sceneggiatura imbarazzante: dieci puntate che regalano l'ebbrezza di un semolino

di Andrea Leoni

Le premesse per un’opera capace di lasciare il segno c’erano tutte. Un best seller internazionale da 3 milioni di copie vendute, considerato da molti come uno dei gialli più avvincenti dell’ultima decade. Una ricca produzione internazionale. Un regista cult come Jean Jacques Annaud (Il Nome della Rosa, Sette anni in Tibet). E un cast hollywoodiano - anche se non di primissimo piano - capitanato da Patrick Dempsey.

Invece la trasposizione televisiva de “La verità sul caso Harry Quebert”, romanzo che ha consacrato lo scrittore ginevrino Joël Dicker, è una profonda delusione. Chi scrive non ha letto il libro e dunque la critica non risulta influenzata dalla sindrome del lettore-deluso, che sovente colpisce coloro che hanno amato un’opera letteraria nel momento in cui dalle pagine passa sullo schermo. Il giudizio è frutto unicamente della visione del film.

La trama, in due parole, per chi già non la conoscesse. Siamo negli Stati Uniti, in una piccola cittadina del Maine (New Hampshire nel libro, ma poco cambia). Lo scrittore Harry Quebert viene arrestato nella primavera del 2008 dopo il ritrovamento, nel giardino della sua sfarzosa abitazione in riva al mare, del cadavere di Nola  Kellergan, una ragazzina di 15 anni scomparsa in circostanze sanguinose nell’estate del 1975. All’epoca Quebert e Nola intrattenevano una scandalosa relazione - lui 30enne, lei adolescente - scandita dalla misteriosa gestazione del libro “Le origini del male” (il cui manoscritto viene rinvenuto insieme al corpo della giovane), che consacrerà lo scrittore nel firmamento della letteratura contemporanea americana. Al momento dell’arresto di Quebert arriva da New York il protagonista, Marcus Goldman, giovane scrittore di successo, amico e allievo dell’arrestato, afflitto da un insormontabile blocco creativo. L’indagine per risolvere il caso Quebert si rivelerà l’avvincente trama del suo secondo romanzo.

Un intreccio narrativo, insomma, con tutte le caratteristiche per ricavarci una serie mozzafiato. E invece no, un vero disastro. Dieci puntate che scivolano via regalando l’ebbrezza di un semolino, tradendo la principale promessa che avrebbe dovuto mantenere il racconto: la suspense, scandita da continui colpi di scena.

La regia di Jean Jacques Annaud è datata, stanca, scolastica e, peggio ancora trattandosi di un thriller, citofonata: è come se il grande regista francese non fosse riuscito a calarsi nella dimensione della serie televisiva. È un’opera nata vecchia - per stile e linguaggio - come se si trattasse di un telefilm degli anni ’80. E ciò lo si “apprezza” in particolare nel ping pong temporale tra il 1975 e il 2008, con trucchi e parrucche da B movie (imperdonabile dopo la svolta imposta al genere da True Detective). La sceneggiatura a tratti è imbarazzante per buchi, approssimazione nel tratteggiare i molti personaggi, dialoghi da fotoromanzo. La recitazione, infine, è nel complesso scadente: a cominciare proprio da Dempsey, che doveva essere il valore aggiunto, e invece nulla toglie e nulla aggiunge all’opera. Lo guardi e continui a vedere il dottor Shepherd.

Da salvare c’è poco o nulla. Ed è un peccato. Davvero un gran peccato.

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