ANALISI
Ibra, Lukaku e il politicamente corretto
Ovvero come trasformare una banale lite di campo in un trionfo dell'ipocrisia e del moralismo

di Andrea Leoni

“Puoi togliere il ragazzo dal ghetto, ma non il ghetto dal ragazzo”. Zlatan Ibrahimovic mandò alle stampe questa frase manifesto nel 2011, come stringata e brutale sintesi della sua autobiografia “Io, Ibra”. Un aforisma letterario, di pregevole fattura, non a caso vergato sotto la penna di un grande scrittore come David  Lagercrantz, co-autore della bio.

In quella massima c’è l’essenza della personalità di Ibra che, come ogni essenza, non può essere eradicata ma solo tenuta a bada. Di tanto in tanto ritorna come un singhiozzo dell’anima.

E il singhiozzo di Rosengrad è tornato a manifestarsi nel corso dell’ultimo derby. Sul viso e nelle parole di Ibra sono ricomparse le espressioni provocatorie e sfacciate del giovane teppista del ghetto di Malmö. Lukaku, già nervoso di suo per un falletto di Romagnoli, ci è cascato. I due, è evidente, avevano cose in sospeso da dirsi dai tempi in cui erano compagni di squadra in Inghilterra.

Ne è nato un tafferuglio da pub, di quelli in cui i rutti e gli insulti si sommano e si confondono, spettacolarizzato dal silenzio spettrale degli spalti vuoti, dalle prestanza fisica e dalla fama dei protagonisti. Cartellino giallo per entrambi. Al fischio finale del primo tempo però, Lukaku, che è un grande attaccante e un bravo ragazzo, ha perso completamente la brocca, sconfinando dall’offesa alla violenza verbale, dalle contumelie alle minacce vere e proprie: ti ammazzo, ti sparo in testa. Nessun provvedimento da parte dell’arbitro.

Il film sul campo finisce all’inizio della ripresa con Ibrahimovic che commette il più stupito dei falli a centrocampo: secondo giallo e sotto la doccia. Una sciocchezza che compromette le possibilità dei rossoneri di giocarsi alla pari il derby. Pessima figura e, soprattutto, pessimo affare per la squadra di cui Ibra, 40enne, dovrebbe essere una guida meno ingenua. L’Inter e Lukaku vincono con merito la partita sportiva e quella nervosa, bravi.

Dal campo poi la telenovela si è spostata sulla stampa. E qui ne è nata un’insopportabile, ipocrita e buonista vivisezione della querelle. Le persone del calcio (Buffon, Conte, Pioli, Barella e tanti altri) hanno circoscritto la vicenda a quello che è stata: una lite di campo. Sui media invece le “anime belle” in servizio permanente, hanno montato la panna a manetta armati con la frusta del politicamente corretto.

Dapprima si è cercato di far passare Ibrahimovic per razzista. Purtroppo per i sacerdoti dell’etica non sono emersi appigli dal labiale dello svedese. Parentesi: è altrettanto politicamente corretto affermare che siccome Ibra è figlio d’immigrati, per equazione matematica non può essere razzista. Questa è una stramba idea secondo la quale esisterebbero valori o disvalori indissolubilmente legati alla propria appartenenza etnica o sociale. È un fatto che tra i peggiori razzisti vi sono spesso gli immigrati di seconda o terza generazione. Chiusa parentesi.

Caduta per mancanza di prove l’accusa di razzismo, si è poi passati a soppesare la crudeltà e il grado d’offesa della provocazione di Ibrahimovic, tirando in ballo l’infanzia difficile del delantero belga. Come se fosse la prima volta che due giocatori trascorrono 90 minuti a discutere di mogli, madri e sorelle, con immancabile riferimento alla supposta attitudine nella Professione, sempre quella. Infine, naturalmente, il solito ritornello sciocco sull’esempio che diamo ai bambini che guardano da casa. In tutto questo le minacce di morte di Lukaku sono scomparse, perché Ibra è un cattivo ragazzo, mentre l’altro è un gigante buono (e a scanso di equivoci non saremo certo noi a chiedere di inasprire la squalifica per l’attaccante nerazzurro).

Mi chiedo sempre il motivo per il quale alcuni ritengono che il calcio debba avere la missione di educare i famosi bambini davanti alla tv e - perché no? - l’umanità intera. Quasi che questo gioco di massa, che proprio perché è di massa raccoglie tutto il bene e tutto il male, debba trasformarsi in qualcosa di migliore rispetto alla società che rappresenta. Nel mondo del pallone ci sono i buoni, i cattivi, gli stronzi, i generosi, i corrotti e gli incorruttibili. E le regole e le sanzioni servono a farli convivere, proprio come nella vita di tutti i giorni.

Mi chiedo come mai quando due giocatori di hockey vengono alle mani, la scazzottata rientri in una normale faccenda tra uomini che sul ghiaccio regolano i loro conti, direi quasi con un’etica tribale, che viene infine considerata dagli appassionati come un valore sportivo. Una tradizione, sia ben chiaro, verso la quale non ho nulla da eccepire. Mentre che se due calciatori si insultano, si provocano, litigano - come avviene in ogni partita, non solo di calcio - diventa uno scandalo, la pietra del peccato diseducativo da additare e condannare. Ma i bambini davanti alla tv non sono gli stessi?  

Dovremo semplicemente accettare che non spetta al campo di gioco, educare la popolazione. Perché non tutto quello che accade durante una contesa, sono robe da galateo da riproporre in ufficio il lunedì mattina. Altrimenti, avanti di questo passo, ci sarà chi chiederà ai giocatori di non sputare in più in campo perché, insomma, poi i ragazzini lo fanno per strada.

Come annota Paolo Condò stamane su Repubblica, Michael Jordan e Kobe Bryant, due dei più grandi sportivi di sempre, avevano fatto della provocazione in stile Ibra (attaccare gli avversari su faccende personali accuratamente memorizzate) una vera e propria arma di gioco. Questo non ha intaccato di un grammo la loro grandezza e le loro vittorie. In America lo chiamano trash-talking e non si fanno tutte queste menate.
  

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