CRONACA
"Riflessioni (e domande) sul suicidio. Dal mio amore giovanile che si gettò dal balcone alle storie di amici di famiglia. Siamo in perenne balia della morte che si allunga su di noi quando il momento si fa buio"
La giornalista Nicoletta Barazzoni: "Mi chiedo spesso se chi se ne va in questo modo lo fa perché è incapace di reggere l'amara realtà di questo momento storico, dove si sta costruendo sulle macerie. Un periodo che sembra essere destinato a crollare, se non escogitiamo nuovi paradigmi del vivere insieme"
© Ti-Press / Samuel Golay
di Nicoletta Barazzoni

 

C'è stato un periodo in cui si sosteneva che parlare di suicidio, diffondendo informazioni su chi compiva il gesto estremo, avrebbe innescato pensieri suicidali, in persone sensibili e più esposte di altre. Pensieri che poi sarebbero sfociati nell’atto, per una sorta di processo emulativo.

 

Oggi se ne parla attraverso i social, che ne testimoniano le percentuali e le storie, portando alla luce le dinamiche, anche attraverso le condivisioni dei familiari.

 

Ho vissuto esperienze legate a persone che hanno perso un loro caro, il quale ha interrotto la sua esistenza, senza che egli avesse, per forza di cose, mai dato segnali depressivi o di altro tipo. Mi ricordo il carattere del suicida che non esternava particolari manifestazioni di sofferenza esistenziale.

 

Da ragazza ho perso un amore che si è buttato dal balcone del sesto piano perché, in un incidente, aveva perso entrambe le gambe. Ho avuto contatti con persone, anche molto giovani, che non lasciavano presagire assolutamente nulla che fosse legato a una simile trama. A parte il mio amore giovanile, le altre esperienze sono state esperienze vissute attraverso la mia professione ma anche vissute nella vicinanza di amici di famiglia.

 

Nell'angoscia e attraverso le loro storie di dolore, sono iniziate le congetture, gli interrogativi, le supposizioni. Anche i tentativi di ricordare elementi che comprovassero, o escludessero, una disattenzione nei confronti del suicida: la mancata comprensione del suo stato d'animo, del suo malessere, o di ciò che stava vivendo in quel momento, rimbombavano senza via d'uscita.

 

Mi chiedo spesso se chi se ne va in questo modo lo fa perché è incapace di reggere l'amara realtà di questo momento storico, dove si sta costruendo sulle macerie. Un periodo che sembra essere destinato a crollare, se non escogitiamo nuovi paradigmi del vivere insieme.


In questi casi le domande si rincorrono senza tregua: come è possibile che siano sfuggiti, a chi lo conosceva o la conosceva bene, gesti, sguardi, o comportamenti di sofferenza e disagio? Come é possibile che un padre, dei fratelli, i familiari, una madre soprattutto, non si siano accorti di nulla? I genitori non hanno forse con i loro figli un rapporto ancestrale, con i quali instaurano un legame emotivo che permette loro di percepire un disagio anche a distanza?

 

Tutte le volte che ho cercato di dare delle risposte a queste domande e ho cercato una spiegazione all'accaduto, qualche cosa di immensamente misterioso e inspiegabile ha iniziato a scavarmi dentro.

 

L'enigma della morte, con ogni nostro gesto, parola o sguardo, porta con sé l'inaccettabile sentimento del distacco, della separazione, dell'accettazione, della resa e del rifiuto per tutto ciò che non ci è dato di sapere. Perché siamo in perenne balia della mano della morte, che si allunga su di noi quando il momento si fa buio, e tutto intorno si spegne nel ricordo.

 

Le storie dei suicidi ci chiamano, più di altre, alla resistenza e all'incredulità, quando qualcuno che amiamo ci lascia per mano sua, portandosi via, senza spiegazioni, insieme al suo canto o alla sua disperazione, la poesia vissuta, o i turbamenti, di quando era in vita.

 

L'incapacità di rispondere a questo dolore incombe su chi cerca, nello smarrimento, di dare un senso all'esistenza. Tutto si ferma, non c'è più spazio e non c'è più tempo perché una morte per suicidio ci espone alla fragilità del nostro essere, nel perpetuo spingersi sul limite, contro l' incombere del buio a cui siamo chiamati a resistere.

 

Le loro anime, come tutte le altre, troveranno dimora, portando con loro il rumore del silenzio. Perciò pensare a loro ricordandoli mi riconduce, con profondo rispetto, alla poesia di Montale:

 

"La tua irrequietudine mi fa pensare

agli uccelli di passo che urtano ai fari

nelle sere tempestose:

è una tempesta anche la tua dolcezza,

turbina e non appare,

e i suoi riposi sono anche più rari.

Non so come stremata tu resisti

in questo lago

d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse

ti salva un amuleto che tu tieni

vicino alla matita delle labbra,

al piumino, alla lima: un topo bianco,

d’avorio; e così esisti!

 

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