Rocco Cattaneo dopo la morte di Michael Goolaerts alla Parigi-Roubaix: "Tragedie simili accadranno purtroppo ancora. Nel ciclismo come in altri sport. Gli accertamenti cardiaci sono fondamentali per tutti i team, ma...". E parla anche di doping
Il presidente dell'Unione ciclistica europea parla della tragedia nella 'classica' francese. E sulle polemiche legate ai ciclisti che non si sono fermati a soccorrere Goolaerts dice: "Per un ciclista è davvero difficile capire in una frazione di secondo cosa sia successo. Comunque sanno che dietro di loro ci sono le ambulanze..."
LUGANO – L’8 aprile, a 150 chilometri dal traguardo della Parigi-Roubaix,
A nulla sono serviti i primi soccorsi a bordo strada e il ricovero all’ospedale di Lille, dove alle 22:40 della stessa sera è il ciclista è morto a soli 24 anni.
Dopo la tragedia che ha scosso il mondo del calcio per la morte del difensore della Fiorentina e della Nazionale italiana Davide Astori, tocca al ciclismo piangere la scomparsa di un atleta per problemi cardiaci.
Quando queste tragedie colpiscono i campioni dello sport, che nell'immaginario collettivo rappresentano l'emblema dell'integrità fisica e un modello di riferimento per migliaia di persone, si rimane increduli.
Quale assurdo motivo può, senza alcun segnale premonitore, stroncare la vita di atleti sottoposti a controlli fisici assidui i cui metodi di allenamento sono monitorati con le più sofisticate tecnologie? Quanto è lecito parlare di fatalità?
Ecco le riflessioni di Rocco Cattaneo, presidente dell’Unione Europea di Ciclismo.
A sua memoria sono già successe, in passato, tragedie simili a quella che ha portato alla morte di Goolaerts?
“Certamente. Ne sono successe, ne succedono e, sfortunatamente, ne succederanno ancora. Nel ciclismo così come in tante altre discipline sportive. A livello professionistico, ma anche tra i dilettanti. Bisogna trattare ogni caso singolarmente, perché le cause di una morte – a maggior ragione quelle dovute a problemi cardiaci – non sono uguali per tutti”.
Come per altri sport, si tratta di tragiche fatalità oppure le cause sono secondo lei da ricercare (anche) nell’eccesso di allenamento o eventualmente in sostanze assunte dagli atleti?
“Gli atleti inquadrati in squadre professionistiche si sottopongono a regolari controlli medici. I team fanno molta prevenzione sull’uso di sostanze illegali che nuocciono sullo stato di salute, poi sta all’atleta decidere che strada seguire. I medici non possono sorvegliare un atleta 24 ore al giorno, sta quindi a lui capire cosa gli fa bene e cosa no. L’eccesso di allenamento non credo sia una causa che possa portare all’arresto cardiaco. Le metodologie d’allenamento sono studiate da preparatori altamente qualificati”.
Ogni quanto i ciclisti professionisti vengono sottoposti a controlli cardiaci?
“Mi risulta difficile dire con quale regolarità vengono effettuati i controlli, perché ogni squadra si organizza autonomamente. Gli accertamenti cardiaci sono comunque di primaria importanza per tutti i team. L’équipe medica di ogni scuderia ha la responsabilità di effettuare dei test e vigilare sulla saluta dell’atleta.
Come presidente dell’Unione ciclistica europea pensa di proporre l’adozione di misure preventive più ferree per evitare fatti del genere?
“No. Si tratta, fortunatamente, di casi isolati che non sono imputabili alle misure preventive da noi adottate. È brutto da dire, ma se avessimo un morto alla settimana allora vuol dire che c’è qualcosa che non va. Ogni Federazione Nazionale effettua i dovuti accertamenti prima di rilasciare una licenza a un corridore. Personalmente, non vedo l’esigenza di andare a inasprire o le misure finora adottate in Europa”.
Significa che l’Unione Europea del Ciclismo è già molto rigida?
“È doveroso esserlo. Il ciclismo, negli ultimi anni, ha fatto impressionanti passi avanti nell’ambito della sicurezza degli atleti. Anche a livello amatoriale prima di ottenere il nulla osta dai medici è necessario risultare idonei a dei test fisici. Da quattro anni a questa parte partecipo alla Maratona delle Dolomiti (ndr: una corsa amatoriale di Gran Fondo su strada con tre differenti percorsi da scegliere). Anche in questo caso, senza certificato d’idoneità è impossibile partecipare alla manifestazione. Porto questo esempio per dimostrare che anche a livello dilettantistico si dà importanza allo stato di salute dei corridori. In generale, oggi, tutti gli sport sono rigorosi sulla sicurezza e la salute di chi li pratica”.
Dalle immagini dell’incidente di Goolaerts si vede il gruppo di ciclisti che lo seguiva continuare la gara senza prestare soccorso. Come si deve comportare un atleta in questi casi?
“Ho letto tanti commenti sul web che si chiedevano come mai chi stava dietro a Goolaerts non si fosse fermato a prestare soccorso. È importante specificare che per un ciclista è davvero difficile capire in una frazione di secondo cosa sia successo. Capita regolarmente che un gruppo di ciclisti assista alla caduta di un altro concorrente, ma fa parte del gioco. I corridori sanno che, in tutti i casi, poco dietro di loro ci sono le autoambulanze, quindi lasciano a loro il compito di assistere i rivali sfortunati. Non c’è stata nessuna negligenza da parte degli atleti. Mi sento anche di dire che – malgrado gli sforzi dei medici – se non c’è stato nulla da fare, poco sarebbe cambiato con l’intervento di uno dei ciclisti dietro Michael”.
L’epoca del doping secondo lei è finita?
“Non è finita e non finirà mai. Purtroppo, il doping sarà sempre in tutti gli sport, così come saremo sempre circondati da persone disoneste. Si deve cominciare a sensibilizzare gli sportivi fin da bambini, ma l’istruzione deve partire dai genitori, allenatori e medici. È fondamentale far passare il messaggio che le sostanze dopanti fanno solo del male e non portano a risultati migliori. Fare uso di doping significa non avere rispetto verso sé stessi né verso gli avversari”.
Come si contrasta l’utilizzo di sostanze dopanti?
“Come detto prima, l’importante è educare gli aspiranti sportivi da subito. Occorre, inoltre, intensificare i controlli: dagli anni ottanta, il ciclismo sta lavorando molto in questa direzione. Magari è impossibile azzerare l'utilizzo di sostanze dopanti, ma è fattibile ridurre il numero di atleti dopati attraverso i sistemi di cui ho parlato. Bisogna responsabilizzare gli atleti, convincerli attraverso un lavoro culturale non indifferente che fare uso di queste sostanze non porta nessun vantaggio. Nel ciclismo, i responsabili delle ricerche scientifiche lavorano alacremente per migliorare i controlli anti-doping. I risultati sono notevoli e il nostro modello è stato fonte d’ispirazione per discipline come l’atletica...”.