CRONACA
India e la sua famiglia vicini al rimpatrio? L'ex docente scrive alla Migrazione: "Sono apolidi e in Etiopia c'è un violento conflitto"
"Il nostro paese, il nostro Cantone, ha i mezzi per ridare umanità a una situazione divenuta disumana: accordare il permesso di dimora, per caso di rigore, a India, alla sua mamma Munaja e a suo fratello Nurhusien", chiede la professoressa

MORBIO INFERIORE - I casi in cui le autorità decidono il rientro forzato di famiglie nei paesi di origine, da cui sono fuggite molti anni prima e dove non hanno una rete sociale, abbandonando al contempo tutta la propria vita in Svizzera, colpiscono sempre. Si mobilitano spesso molte persone, conoscenti della famiglia, per cercare di farsi sentire, di chiedere che possa continuare la sua esistenza.

Le decisioni sospese sono dei limbi, in cui chi chi ne è colpito non può vivere appieno. Questo è il caso della famiglia di Munaja, 50enne etiope, e dei figli Nurhusien di 24 anni e India di 19, fuggiti nel 2012 dall'Etiopia. Attendono una presa di posizione definitiva. Sono patrocinati da Immacolata Iglio Rezzonico, che come ultima carta sta per rivolgersi al Cantone, che dovrà dare un preavviso favorevole o no, poi spetterà alla SEM decidere.

A mobilitarsi, già nel 2020 fu la docente delle medie di India, Dania Tropea, assieme alle compagne della ragazza. Ora la professoressa ci riprova, con un appello da inviare all’Ufficio della migrazione a Bellinzona. Ha pubblicato il testo sui social, chiedendo a più persone possibili di fare altrettanto.

Eccolo:

"Gentili Signore, Egregi Signori,

Vi scrivo questa lettera per appellarmi a voi: una persona a me cara, con la madre e il fratello, vive una situazione tanto assurda quanto drammatica e ha bisogno di aiuto. Non so più davvero che cosa fare per trovare una soluzione ed io non sono che una cittadina qualunque. Mi chiamo Dania Tropea e sono una docente di scuola media: India, ora diciannovenne, è stata una mia allieva, abbiamo mantenuto i contatti e adesso la considero un’amica, una cara amica. Così come la sua mamma Munaja e suo fratello maggiore Nurhusien - niente padre, che è sparito nel nulla da molti anni. A questa piccola famiglia, originaria della fascia di confine tra l’Etiopia e l’Eritrea, è stata rifiutata la domanda di asilo, richiesta però che era stata presentata dieci anni fa!

Nel frattempo, la famiglia ha vissuto tutto questo tempo qui in Ticino, fra Biasca, Cadro e Morbio Inferiore. E nonostante i traslochi forzati, si è integrata, perché si tratta di una famiglia straordinariamente resiliente e amabile. Se lo scrivo con tale schiettezza è perché ho avuto modo di frequentarla e potrei raccontarvi tanto di loro, ma rischierei di diventare stucchevole nella mia urgenza e volontà di sintesi. Tutte le persone che li conoscono sarebbero d’accordo con me e sono sicura che abbiano colto la loro gentilezza anche i funzionari, i poliziotti e i volontari con cui hanno interagito.

India e i suoi familiari non possiedono documenti, di fatto sono apolidi, perché nessuna delle due nazioni li riconosce come loro cittadini. Per la SEM invece sono etiopi e vanno rimpatriati, perché l’Etiopia è un paese sicuro (testuali parole riferitemi a Berna). Io non mi permetto di criticare né di mettere in dubbio alcunché, ci sono leggi e procedure che vanno rispettate e di cui non conosco minimamente la complessità. Di sicuro però qualcosa si è inceppato e India, Munaja e Nur vivono da svariati anni in un limbo, una non-vita di attesa, di incertezza: senza un permesso non si può minimamente accedere alle possibilità di un’esistenza normale, che diamo tanto per scontate: le condizioni per studiare, lavorare, spostarsi liberamente, eccetera.

Non si può accettare che una donna sola con i propri figli blocchi la sua vita in modalità stand-by: il tempo scorre inesorabilmente e India da bambina è diventata un’adolescente e Nur ha passato la sua giovinezza praticamente chiuso in casa - aveva concluso con successo il suo apprendistato, ma non ha mai avuto il permesso di lavorare. La sua sensibilità e intelligenza hanno trovato sfogo nell’arte, che gli ha permesso di restare integro.

Una situazione intollerabile, per cui un paio di anni fa, ho intrapreso quanto mi è stato possibile come docente e come cittadina, per aiutare e proteggere una mia allieva: ho scritto a Bellinzona, ho scritto a Berna e, con i suoi compagni delle medie, ho interpellato i giornali e lanciato una petizione, consegnata direttamente alla SEM. Sono arrivata più volte a dichiarare che mi sarei portata garante per questa famiglia e, se fosse stato possibile, che l’avrei adottata.

Ho voluto aiutare una mia alunna, mi adopererei per ogni mio allievo!, e ora vorrei aiutare concretamente un’amica, India, una ragazza, che potrebbe benissimo essere mia figlia e che potrebbe essere vostra figlia. La dovreste incontrare e parlarci: è una giovane brillante, solare e così saggia, per la sua età.

In questi giorni però incombe, più concretamente, la decisione del rimpatrio forzato, proprio adesso che in Etiopia la violenza del conflitto va dilagandosi e raggiungendo proporzioni inquietanti: l’ONU ha appena lanciato l’allarme.

A questo punto non mi resta che uno strumento, la mia parola, e confido nella sua forza, perché sincera, anche se continuo a rimaneggiare le mie frasi: vorrei che vibrassero di persuasione e invece non trasmettono abbastanza la mia preoccupazione, la mia frustrazione, il mio sdegno per una tragedia così assurda che avviene, senza far rumore, alle nostre latitudini. Non riesco ad accettarla come docente e come cittadina. Come faccio ad insegnare ai miei allievi il coraggio, la dignità, la tolleranza attraverso la letteratura, lo spirito critico, i diritti e i doveri di una società democratica, se io per prima non riesco a rimediare alla sofferenza di una mia alunna, senza colpa - è una colpa seguire la propria madre da bambina nella speranza di un futuro migliore? - , imprigionata nella burocrazia? Pur essendo diligente nella mia professione, uno strappo alla regola l’ho sempre accettato, appunto perché non lavoro con numeri o oggetti, ma con adolescenti e quindi non ho mai ridotto la mia pratica alla semplice esecuzione delle indicazioni contenute nel programma o nei regolamenti: con i miei alunni sono tanto efficaci le regole quanto le eccezioni, perché non ho mai perso di vista lo scopo di quanto faccio giorno per giorno e il buon senso. Mi rifiuto dunque di considerare le persone che lavorano sulle richieste di asilo, un ambito così delicato, come dei semplici burocrati. Così come non mi sono mai ritenuta una mera esecutrice didattica (sarei in questo caso una pessima insegnante), altrettanto credo che le decisioni prese sui richiedenti l’asilo considerino l’impatto devastante che possono provocare sulla vita di esseri umani in situazioni tanto fragili.
Se una persona subisce una tragedia, merita di essere aiutata e protetta, sempre: questo dovrebbe essere uno dei capisaldi indiscutibili.

Il nostro paese, il nostro Cantone, ha i mezzi per ridare umanità a una situazione divenuta disumana: accordare il permesso di dimora, per caso di rigore, a India, alla sua mamma Munaja e a suo fratello Nurhusien. Dare loro la possibilità, finalmente, per cominciare davvero a vivere la vita.

Confidando nella vostra sensibilità e nel vostro prezioso sostegno, nella speranza di una soluzione - sarebbe un sogno per Natale! - , vi ringrazio di cuore per l’attenzione e porgo i miei saluti più cordiali e riconoscenti.

Dania Tropea"

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