Claudio Mesoniat intervista l'economista. “A me sorprende la leggerezza con la quale si butta lì un deficit di 130 milioni quest'anno e l'anno prossimo un deficit preventivato a 150. I nostri figli o nipoti dovranno pagarli presto o tardi”
Di Claudio Mesoniat (Il Federalista)
Mentre in Italia teneva banco il Festival di Sanremo, in Ticino, nei giorni scorsi, è stato il Preventivo 2024 a imperversare, sui media e sui social, in Governo e in Parlamento, con politici, economisti e sindacalisti sulla scena mediatica a discettare di deficit, tagli e misure di contenimento della spesa cantonale.
Dietro a tutto ciò si erge sovrano lui, il fin troppo maestoso debito pubblico. Facile dire che è stato tempo perso, ma non è proprio così, perché parliamo di uno strumento della politica che ci tocca tutti molto da vicino, e toccherà, più ancora, i nostri figli e i nostri nipoti. E, come si suol dire della politica, se non saremo noi a interessarci del debito pubblico sarà lui a interessarsi di noi. Vediamo di capirne il perché con lo studioso che ha dato vita alla facoltà di economia della nostra Università.
“Il problema, secondo me, è questa crescita del debito pubblico di 130 milioni e rotti, in un momento in cui l'economia non è affatto boccheggiante. Se l'economia fosse in recessione o fossimo alle prese con una forte disoccupazione io potrei essere d'accordo, ma le cose non stanno così. Mi preoccupa questa leggerezza con la quale si dice ‘Vabbè, il debito pubblico si può gestire’”.
Entra subito in medias res, Mauro Baranzini, sin dalle prime battute della nostra chiacchierata sul tema che si è impossessato dell’attualità ticinese delle ultime settimane. Con il nuovo deficit di bilancio a preventivo (quello appena votato dal Gran Consiglio), il debito pubblico cantonale potrebbe raggiungere i 2.6 miliardi di franchi a fine 2024. Ci sono Cantoni, è pur vero, che faranno peggio, ma il debito del Ticino è cresciuto negli ultimi dieci anni di quasi un miliardo, oltre il 50%, con ritmi decisamente superiori a quelli degli altri Stati confederati.
Se poi ci guardiamo dentro, scopriamo che il debito pro capite, ovvero il debito cantonale diviso per il numero dei residenti in Ticino, è addirittura triplicato rispetto al 1995 e dovrebbe aggirarsi oggi attorno ai 7500 franchi.
“Un momento”, incalza Baranzini, “c’è poi la nostra quota di debito pubblico federale (con l’aggiunta degli scoperti di certe regie) e c’è quello dei Comuni, con il loro due miliardi-due miliardi e mezzo di debito, che non è facile estrapolare dai conti (solo Lugano viaggia attorno ai 2/3 di miliardo). Il che potrebbe portarci a circa il 40% del nostro PIL cantonale (30 miliardi), come dire quattro mesi filati per pagare l’intero debito pubblico. E tutto alla fine va sul gobbo del contribuente”.
Beh, ci consola il fatto che siamo dentro i famosi parametri di Maastricht, che fissa agli Stati membri dell’UE il 60% del PIL come limite massimo… che poi quasi nessuno rispetta…
“Infatti, e poi vediamo i risultati… Ma il punto non è tanto il debito pubblico in se stesso, il punto è il servizio del debito pubblico, interessi e ammortamenti, che quando superano una certa soglia impediscono allo Stato di svolgere i suoi compiti. In Ticino abbiamo la memoria corta, la gente e soprattutto i politici non ricordano che negli anni 70 e negli anni 90 Sadis (padre) [consigliere di Stato] andava attorno a cercare soldi alle banche a destra e a sinistra, con tassi di interesse che arrivavano al 7,5%-8%. Dunque, è il servizio del debito pubblico che ci dice se il debito è sopportabile o meno; adesso è relativamente contenuto ma dovessero risalire i tassi di interesse ci ritroveremmo a dover pagare somme molto grosse alle banche, senza contare l’eventuale ammortamento, che le banche stesse potrebbero incominciare a richiedere (se le classifiche ABCD peggiorassero)”.
Ha ragione dunque il presidente del PLRT, Alessandro Speziali, che ha messo in luce come quei milioni –32, nel 2024, solo per il debito cantonale- andranno a finire nelle casse degli istituti di credito anziché in “nuove scuole, alberghi, startup, servizi per giovani in difficoltà, case anziani, progetti di USI e Supsi”?
“È vero, ma ce ne sono ben altre di ripercussioni negative sull'economia. La prima è quella del trasferimento intergenerazionale: noi buttiamo sui nostri figli o sui figli dei nostri figli delle somme che non riusciamo a pagare adesso, perché non abbiamo il coraggio o di tagliare le spese o di pagarle con un aumento delle tasse…”
… anche se una parte di queste spese andranno pure a beneficio delle prossime generazioni, in particolare per la loro formazione.
“Vero anche questo. Ma c’è un secondo aspetto negativo, quello della ridistribuzione dei redditi operata dal debito pubblico. Mi spiego. Quando il tasso di interesse è a un livello mediano, diciamo ‘buono e giusto’, allora è tutto ok, visto che tu Stato non carichi certe classi e ne sgravi altre…”
… ma solitamente il tasso di interesse non sta lì fermo al posto giusto, ma va sopra o va sotto: negli ultimi anni, per esempio, è stato molto “sotto”. Che succede allora?
“Succede che lo Stato non ha nemmeno pagato l'inflazione sul debito pubblico. E naturalmente chi resta con la pepatencia in mano? Non le banche perché poi loro riversano queste perdite su noi risparmiatori, ma piuttosto, magari, le persone anziane che mettono via qualche soldo per i giorni difficili o per lasciarlo ai loro figli. E viceversa. Quando i tassi di interesse, come in Gran Bretagna negli anni 70, schizzano su alti, superando il tasso di interesse normale, chi ha sottoscritto titoli di Stato si frega le mani perché ha fatto un buon affare, ma il contribuente sarà chiamato, prima o dopo, alla cassa”.
Lei vuol dire che il meccanismo del debito pubblico ridistribuisce reddito a favore dei ricchi e a sfavore dei poveri?
“Proprio così, e proprio nella direzione in cui la sinistra -che per solito pigia l’acceleratore sul debito pubblico- non vorrebbe giustamente che andasse. E là poi dove l'IVA è alta, e non bassissima come da noi, il debito pubblico picchia sodo, perché lo Stato lo paga con quella”.
Senta, ma è indiscutibile che il debito pubblico abbia una sua utilità, non solo di carattere sociale ma anche perché, come insegnava Keynes, quando lo Stato si indebita, ciò non va a discapito dell’economia, ma va a vantaggio delle imprese.
“Certo, ma l'effetto moltiplicatore della spesa pubblica lo godiamo adesso. Cioè, è bello spendere e spandere adesso perché i poveri riceveranno sussidi, perché le imprese riceveranno lavoro, perché la macchina dell'economia gira… gira adesso, ma i nostri figli, i nostri nipoti, non avranno più questo benefico effetto, dovranno pagare, stare zitti e basta. Non avranno più l'effetto moltiplicatore del debito pubblico, che in certi casi è molto forte. Era il suggerimento di Keynes, se l'economia non gira, fate fare buchi nelle strade ai disoccupati la mattina e fateli loro riempire il pomeriggio, dategli un salario, che andranno a spendere –allora- in latte e pane (oggi… non so dire) e tutto ciò è certamente positivo”.
Non c’è tre senza quattro… altri boomerang dell’indebitamento?
“Ce ne sono ancora un paio, che non hanno mai colpito la Svizzera, ma che in futuro potrebbero picchiarci sulle dita. Il primo è l’effetto di spiazzamento. Per tornare a Sadis (sempre il padre): quando il bravo politico doveva correre da una banca all'altra a cercare i soldi per pagare gli stipendi dello Stato (era il 1978/79 fino all'82/83) e le banche glieli davano, non glieli davano però gratuitamente ma facevano salire i tassi di interesse. E se questo lo fanno sistematicamente più Stati, i tassi di interesse alti, al di sopra del livello che io definisco ‘buono e giusto’, fanno male all'imprenditoria privata che deve prendere in prestito i soldi dalle banche a tassi di interesse da strozzini, per poi magari fare fallimento e licenziare”.
C’è poco da stare allegri. Finiamo la geremiade…
“L'ultimo elemento è che -non da noi, ripeto- quando la tassazione dello Stato arriva a certi livelli, per chi guadagna molto bene ciò può costituire un disincentivo a lavorare. Ci sono professionisti –i dentisti per non fare esempi…- che non lavorano più dopo le tre del pomeriggio perché si dicono ‘sono stanco e non ho voglia di lavorare solo per lo Stato’, pagando il 40% marginale di imposte? Negli Stati Uniti si stima che il fenomeno tocchi fino 50/60% degli interessati”.
Lei allude alla progressione dell’imposizione diretta per cui oltre una certa entrata l’aliquota scatta a percentuali molto più alte?
“Esattamente. In Inghilterra per esempio la tassazione marginale arriva al 60%, in Italia al 50%. E la gente sa fare i propri calcoli”.
La sua conclusione?
“A me sorprende la leggerezza con la quale si butta lì un deficit di 130 milioni quest'anno e l'anno prossimo un deficit preventivato a 150. Sono 150 milioni che i nostri figli o nipoti dovranno pagare presto o tardi. Salvo che lo Stato, come fa in molti Paesi, lasci correre l'inflazione, così da non pagare più il debito pubblico in termini reali. Insomma: faccio correre l'inflazione al 10% l'anno e dopo 5 anni quello che devo restituire è soltanto il 50% di quello che dovrei pagare adesso”. Con le conseguenze micidiali che l’inflazione porta con sé”.
Secondo lei il tentativo di arginare il deficit del decreto Morisoli, diventato legge, è adeguato per porre rimedio al crescere dell’indebitamento cantonale.
“Assolutamente sì. Tant’è vero che io ho votato a favore. E aggiungo che mi ha sorpreso la poca determinazione con la quale il Consiglio di Stato ha difeso il preventivo che cercava di applicarlo”.
E la legge di freno al disavanzo è uno strumento utile a suo parere?
“Sì, funziona abbastanza bene, però ci sono Cantoni che sistematicamente non lo rispettano e lasciano correre. I Cantoni romandi, per esempio, nei decenni passati avevano allargato troppo le maglie e il debito è cresciuto velocemente. Poi hanno dovuto fare una cura di cavallo, come per esempio Vaud, che tra l'altro ha dovuto scucire cinque o sei miliardi per la Cassa pensione degli impiegati dello Stato”.