IL FEDERALISTA
Il mondo secondo Trump
Intervista a Mattia Ferraresi, autore del libro La Febbre di Trump: "Decisiva la dimensione culturale più dell'economia. Americani stanchi del verbo woke..."

di Claudio Mésoniat - articolo pubblicato su ilfederalista.ch

Mattia Ferraresi, modenese, è caporedattore del quotidiano italiano "Domani". Ha lavorato per "il Foglio" e scrive per "New York Times", "Wall Street Journal", "Boston Globe", "Foreign Policy". È autore di numerosi libri, tra i quali "La febbre di Trump" (Marsilio, 2016).

Ferraresi, i risultati hanno certificato un'ondata trumpiana abbastanza massiccia.

"Direi proprio di sì, un’ondata assolutamente massiccia. Sottolineo qualche dato: i democratici sono andati peggio e i repubblicani sono andati meglio un po’ ovunque, anche negli Stati tradizionalmente democratici. Ci sono cose che non si vedono nei risultati dei Collegi elettorali, perché non riguardano la conquista dei Grandi Elettori, ma semplicemente il numero dei voti. Prendiamo lo Stato di New York, per fare l’esempio forse più impressionante: i repubblicani hanno migliorato rispetto a quattro anni fa di 13 punti. Non vincono, naturalmente, ma il dato è pazzesco; e può servire per cogliere la tendenza generale dell'elettorato, ben al di là del semplice “popolo di Trump”.

Infatti, ci si attendeva un voto popolare in linea con le elezioni dell’ultimo ventennio, che ha visto i democratici costantemente in vantaggio sui repubblicani, tra i quali l’ultimo a prevalere nel voto globale è stato Bush junior nel 2004 (se poi guardiamo agli ultimi 100 anni il GOP ha prevalso 7 volte su 26). Prima di provare a capire le ragioni che stanno dietro questi numeri, non possiamo tacere il flop dell’immenso apparato sondaggistico dispiegato per queste elezioni.
"Io non sarei così severo, non credo che i sondaggisti abbiano sbagliato tutto. In realtà hanno capito le tendenze di fondo, ma non ne hanno colto l'intensità. Non ci hanno detto cose false, ci hanno detto cose vere, ma su scala ridotta. E questo perché evidentemente c'è una popolazione elettorale che non è stata compulsata. Mi spiego. Quei voti repubblicani di New York, ad esempio, il sondaggista non è neppure andato a cercarli perché erano fuori dallo spettro di ciò che poteva essere suscettibile di modificare la battaglia negli Stati, soprattutto quelli in bilico. Secondo me, se guardiamo bene, non hanno sbagliato tutto, hanno sottostimato, hanno raccontato il fenomeno giusto, ma sottostimandolo nella quantità. Io la leggo così".

Vediamo allora di interpretare lo tsunami trumpiano. A suo modo di vedere si tratta prevalentemente di una rivolta innescata da fattori economici, come inflazione o disoccupazione, o di una sorta di ondata liberatoria di una maggioranza di americani stanchi di un certo mainstream politico-culturale, quello dei nuovi diritti e del cosiddetto woke, fiori all’occhiello degli ambienti liberal democratici?
"Sottoscriverei senz’altro questa seconda ipotesi di lettura. Penso sia la dimensione culturale, identitaria quella dominante. In realtà il mantra clintoniano It's the economy, stupid [slogan che Clinton mise a frutto nella campagna elettorale del 1992 contro G.W. Bush, in un periodo di prevalente recessione economica negli USA] era stato sepolto già 8 anni fa, con il primo sfondamento di Trump. Se i democratici non l’avevano capito allora, adesso hanno la prova che la solita vecchia storia della gente che vota solo guardando il portafogli non regge. Lì sarebbe stata un'onda democratica perché oggi, con l'economia che cresce al 2,8%, l'inflazione (causata da altri fattori esterni, non dalla politica economica di Biden) che si sta molto raffreddando, la disoccupazione ferma al 4,1% (il minimo da 3 o 4 anni), avremmo dovuto avere un’ondata democratica".

Lei sta dicendo che non è la frustrazione economica a spingere verso un cambiamento, come quello di fronte al quale ci troviamo?
"Infatti. Secondo me vale la seconda ipotesi cui si accennava. Oggi siamo chiaramente di fronte a un voto denotato da un'impronta culturale molto forte, un’impronta, direi, di identità, di desiderio di riappropriarsi di una certa idea anche tradizionale dell'America. E siamo di fronte a una stanchezza rispetto al verbo woke, alla pletora dei diritti, a ciò che per finire rappresenta secondo me una delle chiavi del successo di Trump, che per converso l’ha riassunta con la formula banale “Noi siamo il partito del buonsenso”.

Buonsenso intriso di xenofobia e di razzismo, però.
"Sì, ma se nel 2016 questa sorta di rivolta era molto intrecciata con il richiamo xenofobo e razzista esplicito, con la narrazione dell'uomo bianco diseredato eccetera, adesso questo messaggio va forte anche tra i latinos, tra gli afroamericani. C'è tutto un mondo che culturalmente si sta allineando su quest'idea del rifiuto di una visione del mondo proiettata dall'élite liberal, una visione che non capisce la realtà, che porta fuori strada, che è astratta, che è ideologica, elitaria appunto. Io vedo soprattutto questo, la questione economica non mi convince per niente".

E la questione migratoria? È innegabile che abbia una valenza economica. Secondo lei rientrerebbe in questa battaglia culturale?
"Sì, secondo me è percepita così. Poi ovviamente c’è un mescolamento, perché l'immigrato è anche quello che ti ruba il lavoro, che crea dumping. L’'immigrazione, così come la racconta Trump, è certamente un aspetto della globalizzazione, l'onda lunga della globalizzazione che ha deindustrializzato il Paese, ha portato le fabbriche in Messico, in Cina etc. lasciando a casa gli operai di Detroit. Certamente. Dentro questa idea però c'è anche la grande omogeneizzazione culturale che la globalizzazione, l'abbraccio al libero commercio porta con sé. Non si tratta solo di conseguenze economiche, ma anche di una visione del mondo e della nazione. L'immigrazione è una questione ombrello, che ha tanti riverberi. Secondo me quello economico non è il più forte".

Si potrebbe dire che la popolazione americana non è pronta, e men che meno educata, a una imponente operazione di meticciato. Cosa che vale del resto anche alle nostra latitudini, svizzere come italiane.
"Direi che l’espressione “impreparazione al meticciato” coglie bene una parte del problema, quella culturale".

Di certo c’è però che non sarà Trump, con i suoi inquietanti progetti di deportazione degli immigrati illegali e altri simili metodi da selvaggio Far West che promuoverà educazione e convivenza. È andata bene che abbia vinto le elezioni, risparmiandoci, per ora, la violenza e la strage di leggi e diritto di cui aveva dato un assaggio nel 2021. Per ora.
"Qui tocchiamo davvero gli aspetti più inquietanti del personaggio. La confusione di Trump, la totale irrazionalità e il disordine come metodo di vita e di governo. Si potrà anche dire che i suoi 4 anni di presidenza, dal punto di vista delle decisioni, sono stati abbastanza convenzionali, da uomo di destra convenzionale: non ha fatto cose assurde. Ma dal punto di vista della gestione del potere è stato un orrendo reality show dettato da quello che vedeva in TV, dalle sue voglie, dai suoi istinti: continui licenziamenti, incompetenza totale, quasi esibita come vanto. Temo che tutte queste cose si riproporranno in qualche modo".

Lei pensa che il vicepresidente che Trump si è scelto, James David Vance, potrebbe avere un qualche influsso… razionalizzante, diciamo così, sul Donald furioso?
"Si vedrà se il vicepresidente è quello che dice di essere, cioè in effetti una specie di razionalizzatore degli istinti trumpiani. In campagna elettorale lo è stato, secondo me, perché ha messo ordine e ha fatto vedere quel che lui vuole realizzare. Trump ha catalizzato gli istinti più viscerali, ha capito delle cose nel suo modo completamente irrazionale, mentre Vance sembra avere almeno una visione di quel che vuole costruire. Prima di vederlo, però, non ci credo".

Da interviste lette –come quella oceanica sul New York Times- il personaggio Vance non sembra affatto uno sprovveduto.
"Sì, penso che abbia un certo spessore, anche culturale. Come dicevamo, lui dovrebbe fungere da razionalizzatore del trumpismo. Poi però, che Trump possa permettere che accanto a sé vi sia qualcuno che in un certo senso limiti il suo delirio, insomma… non sarebbe più Trump. Temo che per finire lui si mangi tutti e governi così come si sveglia".

Torniamo alle misure economiche e al requiem che, de facto, Trump suonerebbe al libero commercio e alla globalizzazione con il ricorso alla sua arma prediletta, quella dei dazi sulle importazioni.
"Si tratta in effetti di una delle misure più preoccupanti, perché se imporrà veramente un innalzamento radicale delle barriere commerciali sarà un disastro, in quanto si tratta di misure inflazionistiche. Non si scappa, sono misure che aumentano l'inflazione e l'inflazione la paga, prima di tutti, la classe media/medio-bassa. Paradossalmente proprio quella che chiede protezione a Trump. Cittadini che non credo trarranno beneficio reale dal taglio di imposte che Trump promette, sulla scorta degli incassi ottenuti con i dazi".

Apriamo il capitolo “politica estera”. E incominciamo dalle minacce trumpiane di decurtare i fondi americani alla NATO. Dal punto di vista nostro, intendo di noi europei (visto che anche noi svizzeri, non potremmo comunque mai fare a meno dell’ombrello protettivo della NATO), si annunciano tempi grigi.
"Guardi, questo aspetto non è per me fonte di gravi preoccupazioni. La mia lettura è questa: il movimento teso a investire di maggiori responsabilità gli altri attori dell’Alleanza Atlantica va avanti con forza almeno dai tempi della prima presidenza Obama. È l'onda lunga di Iraq e Afghanistan. Le due guerre sono state l'ultimo residuo di un’egemonia americana diretta. Il mondo è ora multipolare. Già Obama diceva che l'America adesso si volge verso l'Asia e aggiungeva “Cari amici adesso ognuno di voi si prenda la sua responsabilità e paghi i suoi conti”. Ora Trump, come al solito, dice queste cose alla Trump, mentre Obama le diceva alla Obama con tutto l'infiocchettamento e le lauree ad Harvard. Però la musica era già quella e personalmente ci vedo l'occasione di accelerare sulla strada di una presa di posizione seria e politica degli altri soggetti del mondo multipolare, tra i quali l'Europa, prima o poi, dovrà decidere come collocarsi".

Insomma, dobbiamo renderci conto che in un mondo multipolare abbiamo un peso sempre più relativo, e che altri hanno un peso ben più grande rispetto all'Occidente. Ma lei esclude che Trump possa fare mosse clamorose, tipo l'uscita dell’America dalla Nato?
"Io tenderei a escluderlo, anche perché ha avuto quattro anni per farlo e non l'ha fatto. Escluderei questi scenari di un Trump che smantella tutta un'architettura dell'ordine mondiale così, in un attimo. Questo non toglie la pressione perché gli altri contribuiscono di più e l'America continui un percorso di disimpegno relativo (che varrebbe anche per il Canada)".

Questione Ucraina.
"Tosta. Quella dell’Ucraina è davvero la questione più difficile. Diciamo, rapidamente, che occorre trovare una soluzione negoziale. La fase della resistenza eroica è finita. L'America finora ha preso una posizione molto chiara: sostenere l'Ucraina fino alla fine, con l'obiettivo finale della vittoria. E l'ha fatto pagando. Ma questa non sembra più una strategia che porti a una conclusione. Se tu continui a mettere 60, 70, 80 miliardi l'anno non ottieni la vittoria che Zelensky dice di voler ottenere, ossia la riconquista di tutti i territori etc., per quanto giusta possa essere. Ma non è una questione di principio, è una questione di realtà. Trump si inserisce in questa dinamica, il suo ragionamento potrebbe essere: “Bene, uso i soldi che do all'Ucraina come leva negoziale, e invece di 60 miliardi ne metto 30 e poi ci sediamo con Zelensky e proviamo a capire”. Mi sembra questo l'orizzonte in cui si muove Trump. Brutto e cinico dal punto di vista degli ucraini, che capiranno di non avere più un alleato che firma assegni e dice “andate avanti fino alla vittoria”.

E i “buoni rapporti personali” con il dittatore russo?
"Credo che Trump millanti, come già Berlusconi a suo tempo. Ma non credo si possa smuovere Putin sulla base delle buone relazioni personali. Tanto più con interlocutori che durano lo spazio di un mandato".

Sul Medioriente Trump, nel suo primo mandato, aveva posto una base interessante: quella degli Accordi di Abramo. Ora, nel sottosopra generale, come potrebbe muoversi?
"Partirei dall’idea che il 7 ottobre sia stato, da un punto di vista geopolitico, il tentativo chiaro, finanziato dall'Iran, di far saltare il percorso iniziato con gli Accordi di Abramo, che avrebbe potuto portare al riconoscimento di uno Stato palestinese. Ora tutto è ingarbugliato all’inverosimile, ma Trump potrà far valere che la strada sulla quale dobbiamo incamminarci l'avevamo già iniziata e quindi si tratta, faticosamente, di rimetterci su quella strada. Certo, lì sarà Netanyahu il vero ostacolo, perché ovviamente Netanyahu invece si aspetta –in qualche modo come Zelensky si aspetta la vittoria e la democrazia- che Trump lo sostenga senza chiedere niente in cambio, dandogli carta bianca per fare ciò che vuole a Gaza, in Cisgiordania, in Libano e in Iran. È una grossa incognita. Tendo a pensare che tutti questi attori siano molto più furbi di Trump".

Chiudiamo con la Cina, la questione più complicata, l’enigma più difficile anche per lo spavaldo prossimo inquilino della Casa Bianca.                                 
"Concordo, sarà il dossier più complicato, perché l'antagonismo sui dazi, cioè la guerra commerciale, è una guerra, c'è poco da fare. Che possa diventare una guerra con le armi, un blocco navale a Taiwan, nessuno lo sa. Ma di fronte a una impostazione realistica delle relazioni internazionali, la Cina cambia metodo perché interpreta le pressioni commerciali dei dazi come un antagonismo al proprio regime. E qui allora il rischio è grosso". 
 

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