IL FEDERALISTA
Immersione nella scuola
Claudio Mésoniat e Gianluca D'Ettorre rifletto a tutto campo sull'istituzione scolastica. Dalla pedagogia delle competenze alle proposte di recente emerse

A cura di Claudio Mésoniat - articolo pubblicato su ilfederalista.ch

Professor D’Ettorre, facciamo il punto su quanto si muove nella scuola ticinese. Da anni si discute di pedagogia delle competenze e il tema resta aperto; inoltre, in tempi recenti, si nota un interesse rinnovato della politica per la scuola. Credo comunque, per incominciare, che sia sempre necessario, per chi come noi e i nostri lettori non sia avvezzo al "pedagogichese", decifrare un termine chiave attorno al quale tutto ruota: “competenze”, siano esse trasversali o meno.
"Proviamoci, non sarà facilissimo. Ma è importante, perché noi oggi insegniamo per competenze. Ormai questo è il paradigma assunto in tutta la scuola dell'obbligo, e non solo, ticinese come svizzera. Che cosa significa? Che se voi prendete il piano di studi della scuola dell'obbligo (o anche di quella liceale), in realtà più che un elenco di temi o di contenuti da insegnare, troverete un elenco di competenze da acquisire, con diversi gradi di padronanza".

E quali sono di preciso queste competenze?
Leggo dalla pianificazione quadriennale della formazione continua: una competenza è “la combinazione delle risorse personali di un soggetto in termini di conoscenza, di abilità, di atteggiamenti e di valori personali”. Questa dei valori è una new entry, compare nella più recente definizione diffusa dal DECS (Dipartimento cantonale per l’educazione, la cultura e lo sport).

Perché? Le definizioni sono mutevoli?
"Il DECS per legge è tenuto a emanare ogni quattro anni un documento in cui indica per ogni settore scolastico quali siano i campi nei quali vuole formare i docenti, nell’ambito della formazione continua. In Ticino il piano di studi della scuola dell'obbligo è stato appena revisionato nel 2022, dopo che ne era stato prodotto uno nuovo nel 2015".

Quindi, se decifro correttamente il pedagogichese, voi insegnanti siete degli allenatori che devono presentare a fine anno dei giovani pronti a scendere in campo nelle più diverse circostanze della vita pronti e fare gol. Mi sembra comunque di capire che per raggiungere questo ambizioso traguardo vi sia consentito far leva anche sulla disciplina che siete abilitati a insegnare (la storia, nel suo caso), visto che la definizione di “competenza” include le “conoscenze”: quindi non mi sembra che si stiano buttando al macero quelle che chiamiamo banalmente “materie”.
"A rigor di definizioni no, ma il fatto è che come docente che deve programmare un suo percorso didattico sull'arco di un anno, mi ritrovo senza un canone culturale, che dovrebbe essere parte del cosiddetto “canone educativo”. Visto che non si ragiona più in termini di contenuti ma in termini di competenze, che l'allievo deve dar prova di aver acquisito…".

La interrompo: “canone educativo”, “canone culturale”? Per consentire al lettore di… toccar terra, mi permetto di citare in proposito quello che il professor Benedetto Vertecchi aveva chiarito nel corso del convegno organizzato da “Essere a Scuola” lo scorso anno a Lugano.
“Un canone educativo –spiegava Vertecchi- è costituito dalla cultura, dai valori e dagli atteggiamenti che si sono venuti costituendo attraverso il tempo”. E per l’aspetto, appunto, culturale, l’illustre pedagogista puntualizzava come “in Europa, e nei paesi che si richiamano alla tradizione culturale europea, si condivide una cultura che comprende (indico a caso alcuni nomi) Omero e Sant’Agostino, Dante e Newton, Giustiniano e Brunelleschi, Cervantes e Bach, Giotto e Rousseau”.

Mi pare lei stesse dicendo che senza un canone culturale definito e condiviso, la materia può diventare quasi un pretesto per altro.
"Infatti, questo è proprio il nodo della questione: senza un canone culturale la materia arrischia di diventare un pretesto. Per restare nel campo della mia materia, io sono capacissimo di dimostrare che riuscirei a fare acquisire ai ragazzi tutte le competenze indicate sui piani di studio, evitando di insegnare loro i contenuti centrali della storia dell'umanità. Capisce cos'è il problema? La materia è sostanzialmente una sorta di serbatoio cui attingere per trarne dei contenuti che mi servono allo scopo di far acquisire le competenze".

Ma i piani di studio cosa contengono? Prendiamo ad esempio la storia per il livello della scuola media.
"Storia? Vediamo… Ticino, scuole dell’obbligo… Sono due righe. Leggo: “L'apprendimento della storia risponde ai bisogni di crescita culturale e di soddisfazione della curiosità umana”. Arriviamo poi ai contenuti: “Conoscere nelle sue linee essenziali, la storia dell'umanità dalle origini ai giorni nostri e stabilire alcuni nessi fondamentali tra le varie epoche e le diverse civiltà. Più concretamente, comprendere gli sviluppi storici”. Segue un’indicazione della ripartizione sui quattro anni: “Nelle prima medie, dalla preistoria alla fine dell'antichità; nelle classi seconde, dalla società medievale al 500; nelle classi terze dall'età moderna alla belle époque; nelle classi quarte dalla società di massa al mondo contemporaneo”.

Beh, con un canone a maglie tanto larghe, mi sembra che tutto sia lasciato all’assoluta discrezionalità dell’insegnante, quanto alla scelta dei temi. Un giovane potrebbe uscirne con qualche nozione sulla Prima Guerra mondiale senza saper nulla della Seconda.
"Ecco cosa intendeva Vertecchi per “canone perduto”. Tutto questo, beninteso, vale anche per le altre discipline, perché io potrei tranquillamente far acquisire agli allievi delle “competenze operative” in italiano senza far loro conoscere né Manzoni, né Dante, né Tasso, né Boccaccio, né Petrarca. Se occorre che tu sia operativo e agisca in un determinato modo e a prescindere da un discorso contenutistico, un docente può ritagliarsi un percorso che soddisfi le richieste dei piani di studio ma che magari perda per strada contenuti importanti, anche dal punto di vista della tradizione scientifica della sua materia o della tradizione culturale".

 

Quali competenze dovrà aver acquisito il giovane al termine delle medie, sempre riguardo alla sua disciplina?
"Le leggo l’elenco delle competenze. “Alla fine delle scuole medie gli allievi dovrebbero essere in grado di interrogare le realtà sociali, politiche, economiche e culturali in una prospettiva storica. Problematizzare, analizzare e produrre una sintesi su un determinato argomento partendo da una documentazione variata” (si noti il relativismo totale sui contenuti), “interpretare la realtà con l'aiuto del metodo storico e con il concorso delle scienze ausiliarie, riconoscere varie tipologie di fonti primarie ed essere consapevoli di alcune caratteristiche di ognuna di esse".

Perbacco, qui saremmo di fronte a un quindicenne dotato delle competenze di un laureato in storia…
… il quale però potrebbe non aver mai sentito parlare di Riforma protestante o di Unione sovietica. Ma non è tutto. Perché occorre collegare quanto appena detto sommariamente sui piani di studio per competenze alle più recenti norme emanate dal DECS a proposito di “Inclusione e accessibilità nel sistema scolastico ticinese”. Di fronte ad allievi con “bisogni educativi particolari” –e possiamo tutti intuire quale complessità e difficoltà diagnostica stia dietro queste parole- “sta al docente creare dei contesti che rendano accessibile e fruibile al maggior numero di allievi le lezioni (…) al fine di offrire una risposta educativa che sia flessibile e adatta a tutti, compresi coloro che hanno difficoltà di funzionamento”.

Beh, penso che una simile cura e attenzione sia sempre stata in qualche modo inevitabile.
"Sì, ma la pressione sul docente oggi è tale da indurlo a scegliere quei contenuti o quel grado di approfondimento o quei temi che non facciano emergere le difficoltà di apprendimento del ragazzo, giacché in tal caso il docente potrà essere imputabile di non aver creato una didattica “accessibile e inclusiva”. Se poi a tutto ciò aggiungiamo le cosiddette “competenze trasversali”, quelle che attraversano appunto tutte le discipline insegnate e alle quali la nostra scuola tende ad attribuire sempre maggior importanza…"

… lasciamo al lettore immaginare la figura di docente-psicologo-equilibrista che ne emerge. C’è però un altro aspetto a mio avviso preoccupante: questo pedagogismo tende a depotenziare il processo educativo, in quanto tende a ridurre la figura dell'insegnante, cioè di un adulto che deve giocarsi liberamente con tutta la sua personalità nel rapporto con il giovane, valorizzando, anziché svilendo, la sua competenza scientifica. Noi tutti abbiamo sperimentato che l'insegnante che lasciava un segno in noi allievi era spesso quello che lasciava trasparire tutta la sua passione per la propria disciplina, quella cui aveva dedicato i suoi studi. Erano queste figure che trasmettevano la passione per la conoscenza. Insomma, ti facevano venir voglia di entrare in quel campo del sapere, a prescindere dalla scelta professionale e dagli studi cui ti saresti poi indirizzato. Giusto?
"Penso proprio di sì. Questa dimensione del docente appassionato alla sua materia non solo si sta indebolendo ma secondo me in alcuni casi è resa praticamente impossibile. Infatti, perché nessuno applica alla lettera questi piani di studio? Perché i primi a non crederci sono i docenti, o per lo meno alcuni di essi. E quindi il paradosso cos'è? Che io, che magari ho studiato, ho fatto la laurea in un determinato campo e desidero insegnare quella materia perché la ritengo importante, perché sono preparato scientificamente, didatticamente per insegnarla, mi ritrovo superiori che in altre parole mi dicono: “Non so cosa farmene, non mi interessa, non voglio questo, voglio altro, perché voglio che l'allievo acquisisca un determinato modo di pensare, di agire, a prescindere dalla tua materia, della quale puoi servirti ma che come tale è accessoria, secondaria, strumentale ad altri scopi”.

Pensa che questo possa spiegare anche la tendenza ad assumere personale insegnante senza badare troppo alle qualifiche universitarie?
" Ma certo. E se in Ticino c'è ancora una certa resistenza che si ispira a una certa tradizione culturale, nella Svizzera tedesca a questo proposito sta succedendo di tutto. Non è un caso che loro non abbiano la cosiddetta “autonomia didattica”, che in Ticino abbiamo per legge. Nella Svizzera tedesca cosa fanno? Hanno gli eserciziari con i testi già pronti e tu non devi far altro che somministrare ed eseguire quello che altri hanno preparato per te. E lei capisce che per questo non occorre una grande formazione scientifica e quindi si possono abbassare i requisiti. In Ticino la selezione dei docenti era stata fin qui ben diversa. Però anche da noi si sta facendo strada questa tendenza. Ci si dice che non è il DECS che ha abbassato i requisiti, ma che nella Svizzera interna hanno già criteri meno esigenti dei nostri. Di fatto il profilo dell'insegnante che il DECS assume è più basso dal punto di vista proprio delle qualifiche, delle competenze scientifico-accademiche. Lo si vede benissimo per le scuole medie. Una volta per l'insegnante delle medie si chiedeva il master nella materia, adesso si chiede il bachelor".

Voltando pagina, è interessante che la scuola stia diventando oggetto di analisi e di proposte da parte del mondo politico. Per restare al Ticino –sebbene il fenomeno tocchi anche altri Cantoni svizzeri- è recentissima una proposta avanzata dal Partito liberale (PLR). Di cosa si tratta?
"Si chiede di ridurre l’orario delle scuole medie di tre ore la settimana. Lo scopo è di liberare uno spazio supplementare che consenta ai ragazzi di frequentare liberamente attività al di fuori della scuola, che possano giovare all'orientamento professionale permettendo loro di coltivare i propri interessi relativamente ad attività sportive, artistiche e culturali. In estrema sintesi la proposta PLR è questa".

In qualche modo si ricollega al tema del convegno che avrà luogo sabato all’USI -e di cui diremo- intitolato “Educazione dentro e fuori la scuola”. Chi oggi educa i ragazzi? La scuola non ha certo più un monopolio educativo-formativo, ma forse neppure un primato educativo rispetto ad altre agenzie. Quali agenzie? Che differenze tra un campo e l'altro?
"In qualche modo si può vedere un’assonanza tra la proposta e il convegno. Ma la proposta liberale si vuole già operativa e pone il problema di come scegliere queste agenzie, o meglio di quali criteri fissare per concedere a tali agenzie la possibilità di accogliere i ragazzi in quel monte ore sottratto all’insegnamento scolastico. Una responsabilità, quella di decidere quali attività riconoscere, quali validare o quali non validare come possibile alternativa alle ore scolastiche, che ricadrebbe comunque sulla scuola –suppongo sulle direzioni. Direi che il merito di questa proposta è la consapevolezza che esistono realtà educative sul nostro territorio, realtà che potrebbero essere maggiormente valorizzate nel percorso formativo dei giovani. Segnalo che nel 2022 il partito il Centro, appoggiandosi su un documento di “OCST docenti”, aveva fatto una proposta per certi versi analoga, che chiedeva di rafforzare le opzioni di orientamento già nel secondo ciclo di scuola media. A differenza della proposta PLR le attività citate dovrebbero avvenire, qualora la mozione fosse accolta -in quanto ancora pendente in gran Consiglio- nelle aule scolastiche, nella scuola e all’interno dei suoi edifici, non fuori. Qui insomma sarebbe la scuola a dove chiamare, per esempio, aziende o associazioni culturali, sportive o artistiche e non gli allievi a uscire, riducendo l'onere di insegnamento, la griglia oraria della scuola".

Mi sembra però che in entrambe le proposte l’aggancio della scuola con altre “agenzie formative” abbia in realtà uno scopo prevalente di natura economica, ossia in sostanza quello di integrare più rapidamente nel mercato del lavoro. Non crede?
"È possibile, ed è un po’ quello che in Svizzera interna chiamano “caccia di teste”, ovvero lo scovare con molto anticipo i profili che servono alle ditte. “Ti faccio il profilo”, insomma. Sotto ci sta quello, anche se difficilmente verrà detto. E la cosa può anche piacere alle famiglie. Se la si gestisse in un certo modo potrebbe anche essere benefica, se la disciplinasse, se la si normasse, per evitare che il ragazzo vada a lavorare troppo presto. Ma il rischio è di entrare in una sorta di corto circuito: la scuola dell'obbligo vorrebbe mettere a disposizione quel tempo affinché tu raggiunga una certa maturità personale e culturale, però poi ti toglie delle ore per far sì che tu bruci prima le tappe e vada subito a lavorare quando non sei ancora del tutto maturo".

Mi permetto di avanzare una lettura critica che collega in qualche modo la pedagogia delle competenze (non a caso propugnata dall’OCSE) a questi tentativi di aggancio precoce al mondo del lavoro. C’è a prima vista un denominatore comune che, in negativo, appare come una sorta di concezione educativa che inquadra la persona in funzione della società, non come un valore in sé, come il bene più prezioso, e quindi, pedagogicamente, un “io” che va aiutato ad emergere e sviluppare le proprie potenzialità.
"Chiaro che c'è continuità tra le due tendenze. Al sistema delle competenze è sotteso un tipo di pensiero (qua e là viene pure apertamente detto) molto vicino al pensiero computazionale, basato sulle procedure, sui processi automatizzati, che possono piacere a un certo mercato del lavoro, a un certo mondo del lavoro. E questo è abbastanza evidente, tant'è vero che nel recente documento sulla formazione continua dei docenti appaiono termini finora mai visti come token economy (economia del gettone). Una locuzione che mi ha fatto rabbrividire. Il principio è che ogni volta che ti comporti bene ti do un gettone. Non siamo molto lontani dal condizionamento pavloviano e dal comportamentalismo. Di fatto significa far uso di un sistema di formazione dei ragazzi che non è molto lontano dal condizionamento inconscio e che dovrebbe sollevare qualche interrogativo".

Insomma, quell’io che l’educazione dovrebbe far emergere sviluppandone le potenzialità fa paura al “potere” (nell’accezione del linguaggio biblico). Sembra che in realtà un io libero e incontrollabile faccia paura, nonostante le istituzioni proclamino il contrario.
"Sono d'accordissimo. Noi continuiamo a dichiarare per legge che vogliamo un certo tipo di persona, libera, responsabile, consapevole, ma se andiamo a vedere i piani di studio, le direttive, i documenti operativi, i materiali didattici, le pratiche, quello che succede nella realtà concreta è che non vi è alcuna continuità con i principi dichiarati".

Facciamo allora un passo avanti, con una domanda tosta. Di cosa avrebbe bisogno la nostra scuola oggi? Di che riforme avrebbe bisogno secondo lei, tenendo conto di alcuni fattori che una volta non c'erano e ora ci sono, il più ovvio dei quali è la moltitudine di allievi che provengono da altre lingue e culture?
"Il mio punto di vista è quello di un docente al fronte, non è di chi è al vertice. Secondo me una parola chiave potrebbe essere “più respiro”: oggi la nostra scuola è una macchina lanciata a tutta velocità e c’è un grande affanno. Vedo docenti di tutti i settori che davvero si impegnano, corrono e spesso si sentono inadeguati perché quello che fanno non sembra apprezzato né riconosciuto".

Ma il suo è anche il punto di vista di un sindacalista.
"Abbiamo fatto un sondaggio come OCST Docenti, qualche mese fa, ma non se n'è parlato ancora. Abbiamo raccolto più di 600 risposte a un domandario online inviato a tutti i docenti. Ebbene, mi sto leggendo le risposte e posso dirle che sono commoventi. Docenti che hanno 55, 60 anni e dicono: “Io ce la metto tutta, ma sembra che tutto quello che faccio sia inadeguato e che non sia mai al passo con i tempi, che non abbia più niente da dare, da dire, che non valga più niente”. Ecco perché penso davvero che occorrerebbe rallentare un po' il ritmo, mettere fine a una sorta di tendenza iperattiva ma per certi versi molto in affanno. E cercherei di partire da cose più essenziali e concrete".

Ovvero?
"Qualcosa che avrebbe un costo, che però credo sarebbe davvero benefica per i docenti, ovvero di mettere nella loro griglia oraria -quindi in un qualche modo alleggerendola un po’- del tempo per potersi incontrare e parlare, liberamente, non per una direttiva, non con delle aspettative, ma del tempo per potersi confrontare tra loro, discutere tra loro e individuare delle pratiche, delle modalità, delle proposte, delle innovazioni da applicare in classe. Certo, a partire da tutto quello che abbiamo detto, tenendo conto del contesto, ma allentando un poco questa sorta di trazione, di impressione di essere tirati dentro un meccanismo a volte anche contraddittorio al suo interno. Fare un po' di ordine, togliere alcune cose che magari non sono essenziali o affrontarle in maniera diversa, alleggerendo un po' il sistema, anche nell'interesse dei ragazzi. Ma specialmente per consentire ai docenti di far scendere un po' il polverone, di guardarsi negli occhi. Di fare il punto della situazione e mettere a fuoco il panorama che c'è intorno. E capire su cosa puntare, cosa cambiare, cosa mantenere. È chiaro, non un assegno in bianco nelle mani dei docenti, che ovviamente dovrebbero rendicontare, ma infine tenendo conto delle loro proposte, dei loro ragionamenti. Anche discutendo con degli esperti di materia. E con i direttori, ovviamente".

Sta parlando di una conduzione in qualche modo più democratica?
"Direi che ultimamente si è vista proprio una febbre di conduzione, di pilotaggio dall'alto della scuola. Ma non c'è bisogno di pilota, sappiamo bene cosa fare, siamo dei professionisti, siamo formati, siamo competenti. Che non vuol dire, ripeto, chiedere un assegno in bianco. Oggi i docenti spesso sono soli, sono abbandonati a loro stessi. Il docente una volta era magari in una torre d'avorio, oggi è necessario che un docente incontri gli altri, ma ancora una volta, non come intende ora il DECS, non con la co-docenza, che non è nient'altro che un modo per disciplinare, pilotare, orientare, controllare, avere occhio, orecchio dappertutto. Deve essere davvero una fiducia, una fiducia riposta in un professionista competente".

Che però ha bisogno di dialogare col mondo esterno. Il convegno in programma sabato, che mette a tema l’educazione dentro e fuori la scuola (e alla cui ideazione lei ha collaborato), potrebbe dare un contributo di risposta agli interrogativi sulla scuola ai quali abbiamo accennato?
Credo che un merito del convegno potrebbe essere quello di aiutare la scuola a dialogare di più con gli attori esterni alla scuola. A volte questo dialogo si incrina o non decolla. Questo è sotto gli occhi di tutti. Il convegno vuole proprio parlare dell'educazione anche al di fuori della scuola. E chi educa al di fuori della scuola? Con chi dovrebbero confrontarsi, rapportarsi e dialogare i docenti? E che tipo di rapporto potrebbe stabilirsi? Non solo saltuaro e sporadico, come finora: si potrebbe ragionare su qualcosa di più strutturato, di più continuativo.

Infatti il grande apparato pedagogico di cui si diceva non sembra aver registrato che i nostri ragazzi passano fino a nove ore al giorno con i telefonini in mano e vivono dentro il mondo delle app. C’è quasi paura di parlarne, forse per il timore di essere tacciati di passatismo, o di luddismo.
"Appunto, questo convegno vorrebbe dire: guardate che c'è tutto un mondo là fuori che sta educando. E sembra che la scuola non ne sia consapevole. Ma ancora, fuori dalla scuola a educare sono i luoghi di apprendistato, i tirocini, i datori di lavoro. E diciamo che tra questi due mondi il dialogo non è che vada sempre molto bene. Ecco un altro spunto: dialogare con il mondo del lavoro, perché noi prima abbiamo parlato di alcune derive, di alcuni punti deboli delle proposte emerse, ma il mondo del lavoro ha anche delle realtà assolutamente virtuose, sane e preziose. Il mondo del lavoro non è una massa omogenea uniforme".

Per non dire di quell’indagine impressionante resa pubblica qualche giorno fa, secondo la quale un giovane su quattro è consumatore di cocaina…
"… e non dimentichiamo che un giovane su tre lo è di marijuana e un altro quarto di psicofarmaci. Quando poi questi ragazzi arrivano a scuola e dicono di non riuscire a studiare, ci rendiamo conto che la scuola è una delle vittime di un disagio sociale profondo".

 

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