IL FEDERALISTA
Nonsolomoda... Sergio Morisoli: "E chi è arrivato dopo di noi?"
L'ex braccio destro di Marina Masoni: "Sono passate cinque legislature da allora: il tempo, il margine, le idee, la creatività da mettere a frutto c’erano. Noi siamo arrivati fin dove ci hanno lasciato arrivare"
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A cura della Redazione de Il Federalista

Gli ultimi 120 dipendenti della Luxury Goods a Cadempino hanno ricevuto nelle scorse settimane la comunicazione della disdetta dal contratto di lavoro. L’ultimo passo di un processo, iniziato sei anni fa, di smantellamento progressivo della presenza del gruppo Kering nel Canton Ticino, ormai quasi totalmente compiuto. Il gruppo, famoso per il marchio Gucci, solo 10 anni fa era considerato il principale contribuente delle nostre finanze cantonali.

Pochi giorni prima, Consitex, parte del gruppo Zegna (che ha peraltro creato 1200 posti di lavoro in Ticino), annunciava dal canto suo il taglio di 80 posti di lavoro nella sua sede di Mendrisio. Altri 80 tagli erano stati annunciati a metà marzo alla Vf, il colosso della moda con sede a Stabio che controlla marchi come Timberland, JanSport, Eastpak, Napapijri, The North Face, Vans e Dickies.

Sviluppi che hanno dato adito a prese di posizione taglienti sulla stampa locale. Giuseppe Sergi, leader del Movimento per il socialismo, ha sancito dalle pagine de laRegione “La fine ingloriosa della Fashion Valley”, contraddicendo chi (Luca Albertoni, Camera di Commercio) aveva affermato che il settore della moda in Ticino non sta scomparendo ma solo trasformandosi.

Trent’anni dopo

Il dibattito cade negli stessi giorni in cui si ricordano i 30 anni dalle elezioni cantonali del 1995, che videro l’ingresso nel Governo cantonale di Marina Masoni (PLR e prima donna in Consiglio di Stato) e Marco Borradori (primo leghista in CdS). La nascita di una nuova compagine in Governo avrebbe portato al tentativo di rilancio economico del Cantone attraverso una serie di provvedimenti in parte elencati nelle “101 misure” del 26 aprile 1996, i cui indirizzi sarebbero stati condensati nel “Libro Bianco” del 1998.

Tra gli intenti allora annunciati emergeva l’intento di attrarre aziende dall’estero, utilizzando anche la leva fiscale. Un’operazione ultimamente fallimentare? Così la descrive il direttore de laRegione Daniel Ritzer in un recente editoriale (9 aprile): “I grandi gruppi, come la Luxury Goods qui da noi per esempio, decidevano di insediarsi con degli enormi capannoni che diventavano di fatto i loro ‘hub’; un posto da dove fare passare delle merci prodotte in mezzo mondo per una qualche rifinitura (l’etichetta, l’ultima piega, il sacchettino e via) che giustificasse il loro status di soggetto fiscale svizzero”. A suo parere “una presenza distorsiva, che ha sfruttato delle condizioni quadro particolarmente favorevoli (fiscalità leggera, buona infrastruttura, abbondante manodopera frontaliera a basso costo), e ha impedito l’elaborazione di un qualsivoglia ragionamento di politica industriale e di sviluppo inclusivo ed equilibrato per il Ticino”.

Vediamo allora cosa ne pensi chi fu protagonista di quegli anni, dall’interno, quale segretario generale del Dipartimento Finanze ed Economia (dal 1995), tra gli elaboratori di quella strategia: Sergio Morisoli.
In Ticino era crisi nera. In effetti i dati parlano di una disoccupazione sopra il 9% nel Cantone di quegli anni, quando oggi si aggira attorno al 3%.

Non c’era allora -spiega Morisoli- alcuna progettualità. Quando ci siamo messi all’opera si parlava addirittura di “declino controllato”, poiché visto che il declino era in corso da tempo si pensava tutt’al più di poterlo frenare; ma cambiare corso appariva improbabile. Ovviamente, a 25 anni di distanza è facile dire quali tentativi intrapresi allora non abbiano funzionato. A quel tempo però ci si rimboccarono le mani per rilanciare il nostro Staterello. Una mobilitazione di quel genere non si è più vista in seguito. Da 15 anni non c'è più un piano. Con il “progetto Copernico” allora andammo sia al nord delle Alpi sia oltre confine, in tutto il Nord Italia, per far sì che in Ticino venissero a insediarsi delle attività.

Tra queste la moda?

Sì, perché era allora un settore in grande espansione, un settore anche di produzione d’eccellenza, grandi marchi e grandi capacità di gestione e logistica. Di certo non fummo noi a decidere chi dovesse arrivare. Noi semplicemente andammo, con dei progetti molto mirati e precisi a caccia di attività e imprese, nelle Camere di Commercio italiane, a spiegare i vantaggi di un posizionamento in Ticino. Ed era una strategia voluta. Copernico era strutturato su più punti: vi era il marketing all’estero, e vi erano le condizioni quadro interne, tra cui anche gli sgravi fiscali. Era un programma completo, un programma di attrazione e di promozione economica del Ticino.

Però i risultati a lungo termine, sempre prendendo la moda come paradigma, sembrano essere sfumati.

Secondo me non vanno persi di vista due aspetti. Primo: un settore economico, al giorno d’oggi, che dura 30 anni, è un già grosso successo. Non esiste un settore che vive all'infinito in economia. Si sono attirate delle attività ben consapevoli che tutte le attività hanno un ciclo di vita, alcune brevi, alcune lunghe, alcune medie. L'economia è fatta di cicli, è fatta di vantaggi e svantaggi, di concorrenza tra territori.
Il secondo aspetto lo formulo con una domanda: che cosa c’è stato tra quella politica proattiva e l’oggi? Quale alternativa migliore è stata portata? Quell’iniziativa, di certo, ha aumentato notevolmente il gettito fiscale del Cantone, ha aumentato i posti di lavoro, ridotto la disoccupazione, ha fatto crescere il PIL.

In seguito, non si è stati capaci di trattenere queste realtà, di prolungare lo slancio?

C’è da chiedersi perché chi è arrivato dopo di noi, e sono passati 18 anni, non abbia fatto niente di simile? Bisogna chiederlo chi è arrivato in Governo, Sadis, Vitta e tutti gli altri nei Consigli di Stato che si sono succeduti, perché sono passate cinque legislature da allora: il tempo, il margine, le idee, la creatività da mettere a frutto c’erano. Noi siamo arrivati fin dove ci hanno lasciato arrivare. Del “Libro Bianco” poco si è portato a compimento, e il libro è datato 1998.

E su cosa in particolare di quel “Libro Bianco” bisognava puntare?

Una parte è stata realizzata. Come, l'USI e la Supsi, la loro collaborazione e coabitazione. Invece i grandi capitoli sul turismo, le infrastrutture, la bellezza del territorio, l'innovazione tecnologica, cioè i temi grossi, sono un po’ fermi al palo. Di passaggio, dico anche che aspettiamo ancora che gli avversari di quel “Libro Bianco” finalmente scrivano un indirizzo alternativo (e l'avevano promesso per un paio di mesi dopo la sua uscita).

Si è però trattato spesso di aziende che pagavano stipendi molto bassi. Una sorta di “selezione darwiniana” non aiuterà a migliorare il tessuto manifatturiero?

Direi che in economia ogni attività che stia in piedi, guadagni, produca qualcosa che qualcuno da qualche parte sia disposto a comprare, abbai tutta la dignità di vivere senza essere messa in eutanasia. Lo Stato non dovrebbe permettersi di decidere ciò che vuole o non vuole, in un’economia di mercato, soprattutto se si tratta di aziende che occupano lavoratori e che, anche se non pagano grandi imposte, contribuiscono al territorio. Le economie pianificate sono scomparse –so che è una nostalgia per alcuni. Lo Stato deve se mai creare le condizioni affinché alle aziende che scompaiono se ne sostituiscano altre. I salari versati nella moda, peraltro, sono esito di una contrattazione tra datori e lavoratori, con la mediazione dei sindacati.


Insomma, secondo lei, le critiche fatte oggi a quella politica economica di 25 e più anni fa sono ingenerose?

A mio avviso è come fare la critica di un film in bianco o nero lamentando che non abbia i colori. Nel frattempo è cambiato il mondo tre o quattro volte. Le “101 misure” furono una sorta di azione di “Pronto Soccorso”. In seguito si riformò l'intera amministrazione pubblica nel suo funzionamento (Amministrazione 2000), si fecero pacchetti di sgravi fiscali importantissimi, si ridusse la spesa statale di 400 milioni. Fu una stagione più che coraggiosa, e certamente molto combattuta. Guardandoci indietro, gli indirizzi, a partire da quelli del Libro Bianco erano almeno per due terzi corretti, e hanno ricevuto riscontri, anche se non in Ticino purtroppo, ma altrove, con storie di indubbio successo a livello di sviluppo economico.


Nel resto della Svizzera?

Sì, nel resto della Svizzera, ma anche altrove nel mondo, perché il mondo non è stato a guardare. In quegli anni c'erano nazioni come l'Irlanda che pagavano migliaia di dollari per posti di lavoro creati pur di attirare aziende. La concorrenza tra Stati e regioni era fortissima a fine anni 90-inizio 2000: noi allora eravamo tra i migliori. In effetti arrivammo a essere il terzo Cantone più attrattivo fiscalmente in Svizzera, contrariamente a oggi, quando siamo attorno al ventesimo posto. Gli indicatori economici, finanziari, volsero in positivo. In seguito le cose sono tornate a peggiorare perché non si è più voluto proseguire su una linea che era stata tracciata e stava dando successo.

Ma chi dirige il Dipartimento delle Finanze e dell'Economia oggi non si colloca sulla vostra stessa linea?

Sadis non lo fu di certo, anzi contestò apertamente che quanto era stato fatto andasse bene. Vitta, forse, non ha avuto l'energia per rilanciare il Cantone su vasta scala. Sono cambiate le condizioni; allora ci si rese conto che bisognava far ripartire il Ticino, mentre questa non mi sembra sia la priorità degli ultimi 3-4 Governi. Penso che Vitta sia stato lasciato abbastanza solo su questi temi, e da anni.

Nel programma di Teleticino, la Domenica del Corriere, abbiamo visto Pietro Martinelli e Marina Masoni spiegare come si facesse ad andare d’accordo tra consiglieri agli antipodi tra loro (sinistra e destra), su realizzazioni di tipo fiscale e sociale. Lei, Morisoli, veniva citato dal socialista Martinelli come mediatore. Succede ancora qualcosa di simile, oggi? L’impressione è che ognuno dei cinque gestisca il proprio orto, per inneggiare poi tutti insieme alla “collegialità”...

In effetti in quegli anni il Governo faceva quel che si chiama “politica”; poi c'erano gli alti funzionari che si ingegnavano a negoziare le decisioni, fintanto che non si trovasse una chiave. Vi era un grande lavoro di -tra virgolette- diplomazia interna. Andare e venire tra Dipartimenti era un metodo. Non so oggi cosa si faccia, comunque a quei tempi (soprattutto noi, il Dipartimento Finanze ed Economia, in particolare chi vi parla) si girava tra le fila dell’Amministrazione proprio per negoziare, fare, proporre, limare. Martinelli, a ben guardare, era più distante da noi del DFE rispetto a quanto lo siano i socialisti odierni. Oggi mi sembra che il compromesso sia messo lì subito sul tavolo come presupposto, senza che ognuno esponga ciò che vorrebbe. ll compromesso sembra il punto di partenza anziché il punto d'arrivo. Cioè: vediamo come metterci d'accordo in fretta e basta. A quei tempi si lottava metro per metro sui dossier -come è stato detto- “calcolatrici contro calcolatrici”. In partenza, non si era di norma d'accordo su nulla. Salvo trovare poi una soluzione.

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