Da settimane le notizie dal fronte industriale mettono in allerta. Chiusure, trasferimenti, licenziamenti. Ecco le analisi di Fabio Regazzi, Amalia Mirante, Stefano Modenini e Paolo Coppi
Articolo pubblica su ilfederalista.ch
Negli ultimi dodici mesi, il settore industriale ticinese ha registrato una serie di chiusure, trasferimenti e ristrutturazioni che hanno colpito vistosamente l'occupazione, facendo emergere, all'apparenza, le fragilità di un comparto produttivo che, pur essendo storicamente importante per il Cantone, parrebbe oggi faticare nel reggere l'urto delle trasformazioni globali e delle nuove condizioni locali.
Una fatica messa in luce anche dagli ultimi dati della SECO (l'autorità svizzera per il mercato del lavoro) , la quale informa come -all'infuori del settore farmaceutico, che sta ottenendo risultati assai positivi-, la situazione è pressoché invariata, poiché la crescita è rallentata ovunque.
Il lungo elenco di chiusure e ristrutturazioni
Torniamo al Ticino, un anno fa: i 12 posti di lavoro persi a gennaio 2024, quando la LATI SA di Sant'Antonino annunciava la cessazione delle proprie attività entro l'estate, sono stati i primi di una lunga fila che, purtroppo, non sembra volersi interrompere. Ad agosto, SPS Switzerland SA (gestione documenti) ha comunicato il trasferimento delle proprie operazioni nella Svizzera tedesca, mettendo a rischio 17 impieghi nella sede di Bedano. A settembre Mubea Fabbrica Molle SA ha dichiarato la chiusura dello stabilimento di Bedano, che avverrà proprio in questi giorni: 70 gli appiedati .
Novembre '24 è il mese della Bally Schuhfabriken SA di Caslano, la cui ristrutturazione ha comportato una settantina tra licenziamenti e riduzioni di orario di lavoro . A dicembre Kering SA (settore del lusso) ha annunciato la vendita del capannone a Bioggio, segnando di fatto un ulteriore passo nel disimpegno del gruppo dal Ticino (dopo la partenza di Gucci): diverse centinaia (quasi mille) i posti di lavoro cancellati negli ultimi sei anni.
Il 2025 si apre con il botto: a gennaio l'azienda farmaceutica Sintetica SA di Mendrisio (farmaceutica) licenzia 15 lavoratori (oltre ai 40 nella sede di Couvet, fuori Cantone). Di febbraio l'annuncio della chiusura della Bioggio Pharma Manufacture (BPM) : 84 i dipendenti coinvolti . E poi marzo: Consitex (moda) comunica l'uscita di scena dalla sede di Mendrisio, con la perdita di 80 posti di lavoro . Lo stesso numero di lavoratori che VF International , altro marchio della moda, comunica qualche giorno fa di dover lasciare a casa.
Numeri che, nel nostro piccolo cantonale, fanno impressione. Si parla di centinaia di persone rimaste senza lavoro negli ultimi mesi. Ma sono davvero cifre allarmanti? Ne parliamo con quattro interlocutori, approfondendo con loro la situazione dell'industria in Ticino: Fabio Regazzi , imprenditore e consigliere agli Stati per il Centro; Amalia Mirante , economista e granconsigliera per “Avanti con Ticino e Lavoro”; Stefano Modenini , direttore dell'Associazione Industrie Ticinesi (AITI); e Paolo Coppi , sindacalista OCST per il settore industriale.
Industria ticinese: un settore in crisi?
“Crisi” è una parola forte. I numeri appena visti ne legittimano l'utilizzo? Stefano Modenini : " No, non direi proprio . L'industria è un settore resiliente che ha affrontato negli ultimi quindici anni diverse situazioni di crisi a livello internazionale, superandole sempre ". "Tuttavia", specifica Modenini, "il contesto nel quale opera il nostro settore è sicuramente in parte cambiato. Al problema dell'alto valore del franco svizzero, si sono ormai aggiunti altri fattori critici con cui dovremo convivere anche nei prossimi anni".
I costi a carico dell'industria hanno infatti oggi subito grossi in aumento: “Per esempio il costo dell'energia , che per l'industria è vitale, è esploso ”, spiega Modenini; “ Le catene di fornitura e logistica sono oggi più complesse e costose ; è in atto un indebitamento crescente degli Stati e dunque un potenziale freno agli investimenti ”.
Se non di crisi, quantomeno di periodo difficile si può dunque parlare. Lo conferma Fabio Regazzi : “Sicuramente stiamo entrando, o siamo già entrati, in un periodo difficile per il settore industriale”. Ma una postilla è d'obbligo: “Non si tratta di un problema esclusivamente ticinese”, afferma Regazzi, “semplicemente, come spesso accade, il nostro Cantone fa un po' da antenna, percependo prima certe dinamiche critiche che hanno cause anche esterne ”.
Vediamole. “Oltre a quelli citati, il settore dell'automotive , molto legato all'economia tedesca, è un riferimento per molte imprese anche in Ticino. E non dimentichiamo la politica americana dei dazi: per ora non se ne percepiscono ancora gli effetti, ma se dovesse diventare operativa, sarà inevitabile subirne le conseguenze”.
Per Paolo Coppi , questo “mix” di circostanze avverse non è il semplice specchio di un passeggero momento di difficoltà, “ma rende anzi evidente che l'industria oggi, sia in Europa che in Ticino, non è in salute ”.
Salario minimo: colpo fatale o fattore irrilevante?
Com'è noto, in Ticino negli ultimi anni è stato introdotto un salario minimo: l'ultimo adeguamento, in vigore da gennaio 2025, prevede i minimi compresi nella forchetta 20.00 / 20.50 franchi l'ora. Nel caso di Consitex, l'azienda ha dichiarato apertamente che tra le ragioni del licenziamento collettivo, vi è la difficoltà ad adeguarsi al salario minimo . Quanto pesa in effetti questa misura?
Modenini : "Il salario minimo è una variabile che tocca principalmente un gruppo ristretto di attività economiche . Preso isolatamente non costituisce di per sé un problema, ma inserito nel contesto di fragilità descritto può finire per pesare su qualche azienda maggiormente esposta".
Tuttavia, il salario minimo , ci ricorda lo stesso direttore di AITI, riguarda in questo momento poco più di 10'000 lavoratori a fronte di oltre 290'000 posti di lavoro (oltre 50mila nel settore secondario, la metà dei quali nella manifattura).
Regazzi è dello stesso avviso: "Non si tratta di un problema generalizzato. tuttavia, per alcune tipologie di produzione è evidente che le condizioni imposte dal salario minimo comportano conseguenze economiche. Alcune aziende – come Consitex, ma forse anche altre – potrebbero trovarsi costrette a valutare alternative operative, o addirittura a delocalizzare ”.
Diversamente la vede Coppi : "A mio parere quella del salario minimo null'altro è che una scusa , o peggio, un attacco politico . È una misura nota da tempo e le aziende hanno avuto tutto il tempo per adeguarsi. Il problema reale è la competitività : in Europa ci sono regioni dove, a parità di qualità e competenze, si può produrre con costi molto più bassi. Ma dire che è colpa del salario minimo è fuorviante".
Del medesimo avviso Amalia Mirante : "Il salario minimo è diventato un comodo capro espiatorio. Gli aumenti sono minimi, e chi li usa come giustificazione spesso lo fa per coprire scelte strategiche più ampie. Parliamo di multinazionali che producono utili miliardari: non sono certo 50 centesimi in più a mandarle in crisi ".
Si tratta dunque di un problema di competitività? "Credo -conferma Mirante- che molte aziende si stannono spostando verso regioni che hanno creato comparti industriali strutturati, in particolare nella logistica per il settore della moda. Queste aziende sono rimaste finché il Ticino rappresenta un vantaggio. Ora, trovando altrove condizioni migliori, se ne vanno".
Se l’industria ci abbandona…
Sottoponiamo l'ipotesi ai nostri interlocutori: un bene o un maschio? “Dipende da come la si guarda”, risponde Regazzi , “conoscendo la politica ticinese, per alcuni sarà sicuramente una buona notizia. tuttavia, mantenere un tessuto industriale è importante non solo per chi percepisce salari minimi, ma anche per tutti gli altri lavoratori e per l'indotto che l'industria genera ”.
"La chiusura di un'azienda", specifica, "implica la perdita di occupazione anche per figure professionali ben retribuite, spesso residenti, oltre che per le entrate fiscali . Dal mio punto di vista, non è mai una buona notizia . Bisogna valutare gli effetti complessivi, non solo quelli immediati. Serve prudenza nel rallegrarsi di certe decisioni".
Anche Coppi , da sindacalista, non ha dubbi: “La perdita dell'industria in un territorio è sempre un male”. E approfondisce: "Non si tratta solo di posti di lavoro persi, ma anche di una crescente difficoltà nell'assorbire la manodopera espulsa dal settore. Inoltre, nessun altro settore genera una filiera così ampia e variegata di impieghi correlati come l'industria . Dalla manutenzione alla sicurezza, dall'IT [la tecnologia dell'informazione] alla ricerca, allo sviluppo, fino ai servizi meno specializzati come pulizie e logistica. L'industria crea lavoro trasversale. La sua contrazione comporta gioco forza un impoverimento complessivo del territorio".
Mirante è ancora più diretta: " Quando un'azienda se ne va, lascia un vuoto, lascia capannoni vuoti, lascia competenze perse, lascia famiglie in difficoltà . È anche colpa nostra se certi settori non si sono mai sviluppati come si poteva: abbiamo attratto realtà solo con la leva fiscale, senza investire su infrastrutture, formazione, strategie settoriali".
Il futuro dell'industria ticinese
Se si parla di futuro, per Modenini è chiaro il percorso: “A livello di Confederazione sono stati firmati accordi di libero scambio con aree commerciali interessanti per le nostre esportazioni e sono stati aboliti i dazi sui prodotti industriali, bisogna dunque continuare su questa strada”. " A livello cantonale ", ci spiega invece, " abbiamo bisogno di un nuovo modello economico che abbini al meglio innovazione e formazione. La nostra sarà un'economia fatta al 99 % di piccole e medie aziende, ma ciò non significa che esse non potranno continuare ad essere in futuro la spina dorsale dell'economia stessa".
Formazione e innovazione. Due concetti chiave per il nostro futuro. Ma l' industria ticinese ne è consapevole? O non è forse caratterizzato da una certa obsolescenza? La risposta di Regazzi e Modenini è unanime: “Questa è la narrazione di chi non conosce il nostro tessuto imprenditoriale” , reagiscono entrambi.
E Regazzi spiega: " Il Ticino ha un tessuto industriale ricco e diversificato. Ci sono settori a basso valore aggiunto , ma esistono anche molte aziende altamente innovative, dal punto di vista tecnologico, e competitive a livello globale . È sbagliato generalizzare". E continua: “Abbiamo l'abitudine di dipingere tutto il settore industriale ticinese come obsoleto oa basso valore aggiunto”. Importante –ci sembra- la conclusione di Regazzi: "Oggi abbiamo più di 200.000 posti di lavoro in Ticino. Anche se qualche centinaio viene meno, l'impatto va contestualizzato. La nostra economia ha punti di forza e punti deboli, come tutte le economie".
Per Mirante , però, a mancare è una vera politica industriale . "Ci sono aziende che hanno mostrato interesse a espandersi in Ticino. Un nome su tutti: Pilatus. Ma non sappiamo se le autorità si sono sedute a un tavolo per discuterne. Questo è il problema: manca il dialogo, manca la visione, manca un piano per dire cosa vogliamo essere tra 10 o 15 anni". "Fare politica industriale", approfondisce Mirante, "significa anche questo: costruire relazioni , sostenere la formazione di profili professionali specifici, rispondere concretamente alle esigenze delle aziende. In Ticino, purtroppo, non abbiamo ancora sviluppato una vera cultura della politica industriale . Grandi aziende arrivano e se ne vanno senza aver mai interagito con le autorità."
Coppi aggiunge l'elemento dell'importanza strategica del nostro territorio : "Il Ticino è geograficamente ben posizionato. Può fare da ponte tra Svizzera interna e Lombardia , può attrarre talenti dal Politecnico di Zurigo e da quello di Milano, può collaborare con SUPSI e USI. Ma servire investire in settori a elevatissimo valore aggiunto, come la farmaceutica ha dimostrato di saper fare . E servono tecnologie, intelligenza artificiale, ricerca".
Se qualcuno se ne andrà, dovremo attrarne altri
Ultimo capitolo. Vieni ad attrarre nuove aziende? “I fattori attrattivi sono molteplici”, spiega Regazzi , che aggiunge, senza troppe perifrasi: “Oggi lavorare in Ticino è meno conveniente per i nuovi frontalieri. Di conseguenza, saremo costretti ad aumentare le offerte salariali ”. Le conseguenze? "Rischiamo di avere sempre meno manodopera disponibile. Non si tratta solo di concorrenza ai residenti, ma anche di esigenze reali del nostro sistema produttivo".
Modenini avverte: “ Oggi la nostra industria dà lavoro a circa 16'500 frontalieri, ma oltre la metà di essi ha più di 50 anni ”.
Regazzi insistono sul tema fiscale: "Servirebbe una politica fiscale molto più competitiva. Al momento siamo nella media nazionale, ma distanti anni luce da cantoni come Zugo o Obvaldo".
Per Mirante , invece, la chiave è altrove: " Non basta tagliare le imposte . Servono infrastrutture, servizi, mano d'opera formata, burocrazia rapida, relazioni solide tra aziende e territorio . E servono strumenti concreti per accompagnare l'innovazione nelle PMI , oggi del tutto assenti".
Secondo Coppi, condizione sine qua non è la collaborazione tra le parti sociali: "Mai come oggi servirebbero contratti collettivi settoriali , capaci di dare regole, stabilità e solidità all'intero comparto. In un periodo tanto instabile, è solo nella cooperazione tra le parti sociali che possiamo trovare risposte credibili ".