L’inchiesta di Falò, sostenuta da una serie di testimonianze e di documenti raccolti tra il Ticino e la Danimarca, rivela le ombre di un’opera fondamentale per la Svizzera, salutata con favore dal grande pubblico, ignaro però di quanto succedeva
* di Oscar Acciari e Simona Bellobuono (RSI)
“Dovevamo lavorare otto ore al giorno, sulla carta, ma…spesso si lavorava 13 o 14 ore. Molto spesso di notte. Tutte in galleria”. La denuncia arriva da alcuni lavoratori impiegati sul cantiere della nuova galleria ferroviaria del Monte Ceneri. Ma i soprusi non si fermerebbero agli orari di lavoro, anche le retribuzioni non sarebbero state quelle promesse: a fronte di 15 o 16 ore effettive, sulla busta paga figuravano sempre al massimo 8 ore. E come se non bastasse ci sarebbero anche stati casi di caporalato.
Le testimonianze sono convergenti e chiamano in causa la ditta che ha ottenuto l’appalto per l’armamento ferroviario. Un appalto ricevuto anche grazie all’offerta di prezzi più bassi rispetto alla concorrenza. Ed è una storia che si ripete, perché la stessa azienda era già stata al centro di uno scandalo simile in Danimarca, dove vicende analoghe sono state segnalate su ben tre cantieri. E allora viene da chiedersi; ma come è possibile che su cantieri pubblici così importanti non si riesca a far rispettare il contratto collettivo di obbligatorietà generale, firmato proprio con lo scopo è di garantire ai lavoratori dei salari minimi?
L’inchiesta di Falò, sostenuta da una serie di testimonianze e di documenti raccolti tra il Ticino e la Danimarca, rivela le ombre di un’opera fondamentale per la Svizzera, salutata con favore dal grande pubblico, ignaro però di quanto succedeva dentro e attorno al cantiere del secolo.