Salario minimo, Karin Valenzano: "Non saranno comunque sufficienti per vivere dignitosamente in Ticino. Ecco perché questa misura, pensata per contrastare il dumping in alcune professioni, rischia di trasformarsi in un boomerang. E se cambiassimo paradigm
La vicepresidente del PLR: "Occorre lavorare per mantenere il potere d’acquisto generato, anche con l’introduzione di salari minimi, mettendo davvero i lavoratori su un piano di eguaglianza e riducendo la distorsione del potere d’acquisto determinato dai differenti costi della vita al di là e al di qua della frontiera"
foto: TiPress/Carlo Reguzzi
di Karin Valenzano Rossi *
La decisione del Tribunale federale, che ha confermato l’applicabilità di un salario minimo uniforme per il Canton Neuchâtel, ha riacceso il dibattito anche in Ticino, dove la maggioranza degli elettori aveva approvato l’iniziativa ‘Salviamo il lavoro’, lanciata dai Verdi, che chiedeva però l’introduzione di salari minimi differenziati in base ai settori professionali.
Il tema è di quelli amletici. Dirsi contrari comporta il rischio di apparire dei cinici sfruttatori di persone già in difficoltà. Dirsi favorevoli potrebbe lasciar supporre velleità stataliste e assistenziali, poco lungimiranti per un’efficace ripresa economica che possa garantire nel medio e lungo termine posti di lavoro in Ticino.
È allora forse necessario cambiare prospettiva. Che ci sia bisogno di correttivi a livello salariale è un dato di fatto. La situazione attuale è decisamente insoddisfacente, si registrano sempre più casi eclatanti di abusi, che minano alle fondamenta il mondo del lavoro ticinese e la nostra relativa stabilità sociale.
Introdurre un salario minimo (uniforme o differenziato) è però una misura estremamente pericolosa, qualunque sia il salario minimo su cui venga trovato un consenso: 3000, 3200, 3500 o 3650 franchi al mese…
È comunque e sempre un salario basso, insufficiente a garantire a una famiglia una vita dignitosa in Ticino. È invece un salario estremamente interessante per figure professionali, qualificate e non, che da oltre confine guardano al Ticino come unico e possibile sbocco lavorativo.
Il risultato appare evidente: la misura pensata come deterrente anti-dumping per alcune categorie di lavoratori rischia molto concretamente di trasformarsi in un vero e proprio boomerang.
Le distorsioni principali prevedibili sono, da un lato, l’aumento dell’attrattività per i frontalieri di posizioni a salario minimo garantito e, dall’altro, un abbassamento sistematico dei salari anche, e soprattutto, per il lavoratori ticinesi, con il conseguente disinteresse per tali posizioni.
Il circolo vizioso deleterio per l’economia ticinese verrebbe quindi ulteriormente alimentato.
Com’è noto i lavoratori stranieri non residenti, che percepiscono uno stipendio insufficiente per un ticinese, beneficiano all’estero, e si badi bene NON in Ticino, di un potere d’acquisto maggiore rispetto ai loro concittadini e possono quindi condurre nel loro Paese, e NON in Ticino, una vita più che dignitosa.
Essi non spendono però quasi nulla in Ticino di quanto percepiscono, sottraendo così un prezioso indotto al Cantone, che deve per contro far fronte a costi strutturali e di urbanizzazione per poter assorbire (alla bell’e meglio) l’impatto che la calata quotidiana di lavoratori frontalieri imprime al territorio.
Il lavoratore ticinese invece, con un simile salario, continuerà a non poter condurre una vita dignitosa. Queste posizioni salariali verranno quindi rifiutate dai ticinesi, anche a beneficio di temporanee prestazioni assistenziali o di disoccupazione, in attesa che si possa aprire una posizione con salari effettivamente congrui, e nel mentre - per poter sopravvivere dignitosamente - anche i ticinesi si recheranno oltre confine per ridurre notevolmente i costi della vita che da noi sono superiori. E come biasimarli?
Insomma, una situazione insoddisfacente sotto tutti i punti di vista.
Le aziende dal canto loro, si vedranno costrette a implementare misure per adattarsi all’ingerenza statale in materia di salari, e chi non riuscirà ad adeguare le modalità operative chiuderà e se ne andrà altrove, con la conseguente perdita di posti di lavoro e di indotto fiscale.
È davvero ciò che vogliamo per correggere le attuali distorsioni? Mi permetto di dubitarne. Il dado è comunque tratto: è necessario concretizzare - nel migliore dei modi possibili - l’iniziativa “Salviamo il lavoro in Ticino”, cercando di contenere il più possibile gli effetti negativi prevedibili di cui sopra. Il tema è: come?
Discutendo con alcuni commercianti di Lugano, di quelli che pagano salari dignitosi, lottando per mantenere le attività sul territorio con i relativi posti di lavoro, malgrado il ‘turismo della spesa’, la congiuntura sfavorevole e la concorrenza del web, è emerso forte e chiaro il tema dell'incapacità di trattenere il potere d’acquisto sul territorio ticinese.
Pur condividendo appieno il diritto di chi lavora ad avere un salario congruo, è altrettanto certo che un simile diritto non può essere garantito (non solo a breve termine ma soprattutto a medio e a lungo termine) se una consistente parte di quanto genera in termini di stipendi l’economia locale viene esportato.
È purtroppo evidente che quello che sembra oggi ad alcuni la panacea di tutti i mali è nei fatti una misura killer che darà il colpo di grazia ad un sistema economico che cerca di trovare nuove declinazioni.
Bisogna lavorare su ipotesi diverse, da combinare con un possibile salario minimo, affinché si stimoli – fors’anche con obblighi per periodi transitori – a spendere sul territorio. Possono per esempio entrare in considerazione forme di stipendio miste, in misura ragionevole, che determinino la reimmissione in Ticino di parte dello stipendio da parte dei frontalieri.
L’ipotesi è di quelle che meritano seriamente di essere approfondite per trovare soluzioni concrete d’interesse per tutto il tessuto economico ticinese e quindi in primis per i lavoratori: allargare gli orizzonti e lavorare per mantenere il potere d’acquisto generato, anche con l’introduzione di salari minimi, mettendo davvero i lavoratori su un piano di eguaglianza e riducendo la distorsione dell’effettivo potere d’acquisto determinato dai differenti costi della vita al di là e al di qua della frontiera.
Che la chiave di volta possa essere una misura diversa dal solo salario minimo?