SECONDO ME
Alberto Siccardi: "La regola crudele dei livelli alle Medie"
"Se non riusciranno a proseguire negli studi e cambieranno il percorso, saranno loro a deciderlo, ma più avanti e senza essere vittime delle decisioni altrui quando sono ancora ragazzini"

di Alberto Siccardi  (opinione pubblicata in Spazio Libero su Corriere e Regione) *

Chi ha passato parte della sua vita a studiare, e non solo in Italia, e a insegnare a tanti ragazzi ed adulti a lavorare bene e a guadagnarsi il pane, può ragionevolmente e seriamente essere convinto di conoscere un po’ il fenomeno dell’apprendimento, sul quale ha imperniato tutta la sua vita lavorativa. Può anche sostenere che il sistema dei livelli A e B sia la più grossa ingiustizia che si possa fare a dei ragazzi delle medie. Perché sa che la capacità di apprendere non è costante nella vita di una persona e tanto meno di un giovane allievo. E non mi importa di essere molto critico verso il sistema scolastico ticinese, con cui ho preso parte attiva a diatribe importanti in almeno due occasioni. Credo che i livelli A e B non siano più adeguati ai tempi e che si possa e debba fare meglio, per il bene dei nostri ragazzi.

Ho vissuto in prima persona, e visto vivere a miei compagni di scuola, l’amara disfatta di essere respinti, bocciati, e di dover ripetere l’anno sotto le pressioni psicologiche delle famiglie; ho visto come se ne tragga insegnamento e come un ragazzo o una ragazza sovente recuperano, sia a scuola sia nella vita, perché ripetere non è una condanna definitiva. Andare a dire ad un ragazzino che è di livello B può significare togliergli di colpo la voglia e la forza per reagire e riprendere con rinnovata attenzione il suo percorso formativo. Così come anche una famiglia non ha più modo, a quel punto, di affiancarlo e, con la dovuta severità, aiutarlo a riprendere la sua strada, quella che per lui aveva progettato.

Ma quali livelli!!! La personalità di un individuo cresce a velocità diverse negli anni, bastano un innamoramento adolescenziale, una delusione nello sport, un genitore troppo aggressivo o troppo tollerante, per rallentarlo nella sua evoluzione; evoluzione che può riprendere però a breve termine grazie al mutare della situazione negativa che per un breve periodo lo ha danneggiato. Un «livello» fissato ad una età così giovanile è togliergli molte possibilità future e per sempre.

E questo pensiero non è né di destra né di sinistra. Si tratta di dare a tutti, e a tutte le età, la possibilità di riprendersi e riprovare. Non ha nulla a che vedere con la difficoltà dei corsi, che può anche essere aumentata, per far piacere ai liberali (e magari meno ai socialisti). Occorre eventualmente aiutare le famiglie che, per i loro precedenti o le loro situazioni lavorative, non possono stare vicine ai propri figli. Semmai dovrebbe essere la scuola che mette a disposizione degli allievi un sistema di tutori che, in modo specifico, li aiutano nelle materie in cui incontrano più difficoltà.

Quando poi, nei casi in cui la maturità del ragazzo, il suo impegno e la severità della famiglia non sono sufficienti, che ripeta pure l’anno. È una doccia fredda, per chiunque. Si salutano i vecchi compagni di classe, si sa che tutti lo sanno, i genitori si innervosiscono e il ragazzo o la ragazza stanno male. È per loro una dura lezione. Ma sanno che la strada per loro è ancora aperta, che se si «tirano su le maniche» potranno dimenticare questa disavventura e fare quello che vogliono nella vita. Se vogliono studiare, naturalmente. Altrimenti possono cambiare, secondo la loro volontà e quella della famiglia, il tipo di studi ecc. Ma senza che nessuno, con una regola crudele e molto discutibile, gli imponga l’etichetta di livello B per sempre, in un momento in cui forse gli basta un aiuto temporaneo. A quella età non si sa ancora cosa si vuole fare nella vita. Facciamoli quindi rallentare senza obbligarli a deviare in un mondo che magari non gli piace; e senza proporre loro una inutile «passerella impossibile» per passare dal percorso professionale (che magari troveranno più difficile) a quello accademico. Se non riusciranno a proseguire negli studi e cambieranno il percorso, saranno loro a deciderlo, ma più avanti e senza essere vittime delle decisioni altrui quando sono ancora ragazzini.

Forse un altro punto è giusto toccare per migliorare la formazione di uno svizzero che si affaccia sul mondo del lavoro: quello del tedesco. La lingua tedesca è, per gli svizzeri, la lingua importante, che non può essere messa in disparte. Per di più è un indicatore della maturità di un ragazzo, per decidere se è di livello A o B (!). Non è facile per uno straniero naturalizzato entrare in questo dibattito, anche perché non si discute su una scelta che ha radici storiche lontane. Ma almeno non si viva nell’illusione che il tedesco sia indispensabile per lavorare. Non lo è neanche in Germania e tanto meno in Austria, dove, come in Svezia, Finlandia e Norvegia, si parla sempre di più l’inglese. Con l’inglese si va dappertutto (salvo in certi Paesi africani, dove si parla solo il francese). Si va anche in America latina, perché chi lavora anche a livelli medio-bassi parla un po’ di inglese. Se lo si vuole insegnare in una età più avanzata per evitare il plurilinguismo in tenera età, lo si insegni più avanti, con corsi accelerati. Ma lo si faccia. Altrimenti è inutile parlare di mondialismo e di collaborazione internazionale: saremo bravi in tutto meno che nelle attività imprenditoriali all’estero!

* imprenditore

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