“Oltre alla repressione, l’educazione precoce ai rischi e il potenziamento dei programmi di riabilitazione potrebbero essere validi strumenti nella lotta alla tossicodipendenza. È tempo che la politica federale recuperi il ritardo accumulato"
di Giuseppe Cotti *
Ai primi posti fra le serie di Netflix, in questi giorni, c’è “Painkiller”. È la storia di come l’immatricolazione di un solo farmaco, l’ossicodone, abbia dato avvio alla crisi da oppiacei che negli USA uccide decine di migliaia di persone ogni anno. Come spettatori svizzeri, sarebbe facile etichettare questa storia vera come un’americanata – un problema reale, certo, ma che non è destinato a toccare il nostro Paese.
La realtà, però, ci indica che le cose potrebbero anche non stare esattamente così. Negli ultimi 10 anni, infatti, le prescrizioni di oppioidi nel nostro Paese, sono letteralmente esplose: +91,4% per lesioni leggere e +88,3% per lesioni gravi. Che questi farmaci tendano a creare una rapida e fortissima dipendenza è un fatto ormai consolidato, così come è reale il pericolo che finiscano sul mercato nero.
Senza esagerare con l’allarmismo, potremmo essere all’alba di un’emergenza-droga non molto diversa da quella che la Svizzera – e in particolare la Città di Zurigo – vissero una trentina di anni fa.
Lo dimostrano anche le denunce nei confronti della politica che, in questi mesi, si sono moltiplicate a proposito del consumo di crack, un derivato pericolosissimo della cocaina. Il traffico dal Sudamerica è ai massimi storici, e in tutta Europa assistiamo alla nascita di “scene aperte” – come accade a Losanna e Ginevra, città dove i tossicodipendenti noti alle forze dell’ordine sono oltre 200.
Questa emergenza nascente solleva importanti domande sulla politica delle droghe in Svizzera. Il nostro Paese è noto in tutto il mondo per le sue scelte progressiste, focalizzate sulla riduzione dei danni, sulla prevenzione e sul trattamento delle dipendenze. Uno sguardo all’impatto delle nuove sostanze pericolose, con la loro potenza senza precedenti, ci impone però di valutare se il nostro sistema sia in grado di adattarsi alle sfide che lo attendono.
Una delle principali cause dell’emergenza è l'incapacità delle autorità di rispondere tempestivamente alle tendenze nel (tristemente) dinamico mercato delle droghe. Restando all’esempio del crack, questa sostanza si è imposta in modo silenzioso, spesso nei quartieri più vulnerabili: il ritardo delle autorità nell’accorgersi del fenomeno ha così permesso al problema di radicarsi.
Non sarebbe comunque onesto scaricare tutta la responsabilità sulla giustizia: la repressione è infatti chiaramente insufficiente, per le sostanze altamente pericolose come il crack o il fentanyl, un terribile oppiaceo sintetico. Queste sostanze riescono infatti spesso a “sopravvivere” alle misure di controllo, e richiedono una riflessione più ampia – che abbracci l’insieme della politica svizzera in materia di droga.
La repressione, certamente importante, non può essere l'unico strumento nella nostra lotta alla tossicodipendenza. Occorrerà esplorare soluzioni complementari, puntando ad esempio sull'educazione precoce ai rischi e sul potenziamento dei programmi di trattamento e riabilitazione. È tempo che la politica federale recuperi il ritardo che ha accumulato.
Proprio come trent’anni fa, si tratta di avviare una discussione aperta, basata sull'evidenza, e di valutare tutte le opzioni a nostra disposizione per affrontare le nuove forme dell’emergenza legata al consumo di droga – per proteggere, oggi come ieri, la salute e il futuro dei nostri figli.
* Vicesindaco di Locarno e candidato al Consiglio nazionale per Il Centro