ANALISI
Se non riusciamo a metterci d'accordo neppure sul divieto di distribuzione gratuita del Corano nelle piazze, arrendiamoci subito agli islamisti radicali, che facciamo prima. E faremmo una figura migliore
C’è da rimanere sbigottiti di fronte alle dichiarazioni di alcuni rappresentanti del mondo politico ed accademico, sulla raccomandazione che Norman Gobbi ha inviato ai Municipi ticinesi per fronteggiare la campagna Lies, promossa da organizzazioni salafite attive in Svizzera. L'Islam deve avere un suo spazio, ma non siamo disponibili a dare un palcoscenico a invasati bacia tappeti con la lingua biforcuta
di Andrea Leoni

 

A leggere l’ultima edizione del Caffè cascano le braccia. Per carità, il domenicale fa il suo lavoro proponendo una visione controcorrente, feconda al dibattito democratico e dunque di per sé utile e positiva. Ma c’è da rimanere sbigottiti di fronte alle dichiarazioni di alcuni rappresentanti del mondo politico ed accademico, a proposito della raccomandazione che Norman Gobbi ha inviato ai Municipi ticinesi, chiedendo loro di vietare la distribuzione sulla pubblica via del Corano, nell’ambito della campagna Lies, promossa da organizzazioni salafite attive in Svizzera.

 

Una decisione di solo buon senso, maturata all’interno del tavolo che riunisce i Consiglieri di Stato che si occupano di sicurezza, e sulla base delle informazioni raccolte dai servizi segreti. Una restrizione ancora troppo timida, invero, considerato che tali organizzazioni sono già state messe al bando, non nella Russia autoritaria di Vladimir Putin, ma nella liberale e accogliente Germania di Angela Merkel, ad esempio.

 

Eppure c’è chi ancora non capisce, o finge di non capire, arrampicandosi su sentieri liberali e legalisti solo che patetici, e arzigogolandosi su sentimenti ideologici buoni per il romanticismo sciocco di qualche libro cuore.

 

Non si tratta di vendere o no il Corano. Non si tratta di proibire o no il Libro sacro dell’Islam. Qualsiasi cittadino può reperirne facilmente una copia in libreria, in biblioteca, oppure online. Qui si tratta soltanto di vietarne la distribuzione gratuita sulla pubblica via, cioè di stoppare un’opera di proselitismo, per giunta organizzata dalla corrente peggiore della religione islamica.

 

Una forma di propaganda, è bene ricordarlo, che non è soltanto religiosa ma anche, se non soprattutto, politica. Non serve aver studiato politologia per capire che in un simile contesto, anche solo la bancarella rappresenta un atto politico, che rivendica uno spazio democratico fisico e morale, pur odiando visceralmente i cardini della nostra democrazia. È un inganno strisciante, da serpente a sonagli: l’incanto e poi il morso.

 

Quella bancarella, infatti, non è altro che un presidio, dove si veicola un pensiero, un'immagine, la ricerca di un contatto. E la dimensione pubblica dove si intende apparecchiarlo, ne sdogana il senso e la liceità. Altrimenti non si capirebbe il motivo per il quale questi signori investono tali e tanti sforzi in questa vera e propria opera di reclutamento e di indottrinamento.

 

Chi non lo capisce è perlomeno distratto. Chi mette sullo stesso piano la distribuzione della Bibbia o di altri libri con il Corano, è un ignorante. Chi vuole parificare in Occidente le varie religioni monoteiste, è un complice, in molti casi suo malgrado, dei nostri nemici.

 

Se non ci mettiamo in testa che l’Islam non è una religione europea, ma una confessione culturalmente ospite dell’Europa - che va tratta con il rispetto e i diritti e i doveri che si offrono e si pretendono da un ospite - ogni discorso sarà vano. Allora sì che pretenderanno sempre più piede quelle mostruose idiozie, razziste e oltraggiose verso la nostra storia millenaria, che propongono ad esempio di vietare l'Islam.

 

Abbiamo già visto cosa è successo in Continente, rendendo estranee al principio di realtà le nostre Costituzioni liberali e tolleranti (che certo non potevano prevedere il pericolo con cui oggi siamo confrontati), con il nostro lassismo culturale, con il veleno dell’omologazione consumistica, con l’arroccamento irragionevole su principi spuntati.

 

Al netto delle nostre gravissime responsabilità nella destabilizzazione del mondo fuori dai nostri confini, attraverso un colonialismo economico criminale e il depravato mercanteggiare con i peggiori rais del mondo islamico; la persistente crescita del movimento jihadista in Europa è avvenuta perché lo siamo stati a guardare, perché non abbiamo fatto un tubo, pensando scioccamente che il solo pronunciare gli slogan “viva integrazione", “nessuno tocchi la libertà religiosa”, “l’Islam non c’entra nulla con il terrorismo”, fosse sufficiente affinché il problema si risolvesse da solo.

 

È grazie a questi approcci - o per meglio dire a questa apatia - che si sono create le fucine dell’odio, i quartieri delle nostre capitali schiacciati sotto il tacco dei predicatori di Allah, le moschee e i centri di preghiera dove si parla ogni lingua salvo quella del luogo, le cellule terroristiche e i lupi solitari, gli attentati.

 

Perfino nel nostro microscopico territorio abbiamo, ripetutamente, osservato le schegge, per fortuna finora soltanto quelle, della grande fabbrica dell'islamismo radicale che abbiamo in casa. E dispiace constatarlo, ma abbiamo altresì ascoltato una parte della comunità islamica ticinese, avere atteggiamenti schifosamente ambigui. Inaccettabili.

 

Credo che queste parole possano rappresentare una parte del pensiero di quei cittadini che desiderano un Paese e un Cantone, dove l’Islam abbia diritto di avere un suo spazio, ma che sia chiaro, codificato, trasparente e condiviso. A queste condizioni sarei pronto a battermi affinché i musulmani possano esprimere e onorare la loro fede in piena libertà.

 

Ma non siamo disponibili a dare un palcoscenico a invasati bacia tappeti con la lingua biforcuta, che seminano corani per strada e predicano da sbruffoni ideologie e precetti legali in aperto contrasto con le nostre tradizioni e la nostra cultura.

 

Per questo è imperativo smettere di non fare nulla, di lasciare andare le cose come vanno, di relativizzare a spallucce, facendo spadroneggiare l’incultura che mira a parificare tutto, attraverso la negazione di se stessi, perfino quando si tratta di indicare il sesso sul passaporto. Ripetere all’infinito la stessa ricetta politica sarebbe solo, e tecnicamente, un atto di follia. Provare invece a fare qualcosa di diverso, una presa di coscienza e di responsabilità.

 

Se non riusciamo ad accordarci neppure su questo, arrendiamoci subito, che facciamo prima. E faremmo una figura migliore.

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