La scena che ha scatenato le ire degli appassionati dell’attività venatoria, è quella in cui un cacciatore prima fa la pipì, poi sorseggia della grappa e, infine, spara per errore a una ragazzina uccidendola. La provocazione è forte, e potrebbe anche essere interessante, ma è talmente costruita e raccontata male - sia prima che dopo la fucilata - da risultare un “bimbicidio” da caccia grottesco. Il problema, insomma, è la qualità del prodotto più che i suoi contenuti
Ho guardato la serie tv il Guardiacaccia. Tutta. Dal primo all’ultimo minuto. E al termine della quinta puntata l’impressione prevalente non è stata quella di aver visto una fiction offensiva, ma brutta. Oggettivamente brutta.
Nel caso dello sceneggiato della RSI, il giudizio non rientra nel margine di apprezzamento personale del “de gustibus”. Alcuni limiti, infatti, sono talmente evidenti da risultare difficilmente opinabili.
Si fa innanzitutto fatica a capire come ci si sia potuti avventurare con tanta leggerezza nel filone delle serie tv, ben sapendo che gli occhi del pubblico sono quotidianamente allenati a un sintassi televisiva di genere scandita da una qualità altissima. Non si può chiedere al telespettatore, senza traumatizzarlo, di passare dai telefilm trasmessi da tutte le reti televisive (RSI compresa), o da Netflix, a questa produzione. Se decidi di cimentarti nel campo devi realizzare una gran figata, come minimo.
Invece nel Guardiacaccia tutto è vecchio, sorpassato. Sembra più una telenovelas sudamericana di vent’anni fa che una serie televisiva. Manca proprio l’alfabeto, la grammatica, della fiction a puntate dei giorni nostri. La storia, tanto per cominciare, strapazza quasi ad ogni scena il principio del “verosimile”, alla base di ogni racconto di fantasia che prende spunto dalla realtà. Nulla o quasi è credibile, a partire dalla recitazione. Attori che sembrano attori e non i personaggi che dovrebbero rappresentare. Visi, espressioni e dizione della recita da Academia della Crusca sono completamente estranei al contesto: se in quella valle al posto del protagonista brizzolato, quasi un sosia di Edoardo Costa, e della bella assistente che non parla dialetto ed è vegetariana, ci avessero messo Luke Skywalker e la principessa Leila, la credibilità sarebbe stata la stessa con questi presupposti. E in tale contesto perfino le belle riprese degli ungulati e dei paesaggi risultano infine fittizie, costruite, forzate.
La sceneggiatura è un elogio della banalità e del moralismo più stucchevole: si raggiungono cime ben più alte delle montagne rappresentate. E i dialoghi ne sono l’incarnazione immediatamente percepibile, con quella spruzzatina di dialetto qua e là, a casaccio e mal masticato, che svilisce anziché arricchire le battute. Sembra che gli autori abbiano commesso un errore di fondo: scambiare la semplicità della tradizione e della cultura popolare con una narrazione sempliciotta. Quasi offensiva per quanto è stereotipata e prevedibile.
Il risultato è un susseguirsi di melenso buonismo, di consunte ovvietà e di un accozzaglia sconclusionata e mugugnosa di episodi e inquadrature di natura morta (compresa quella umana). Qualunque emozione e qualunque pathos, sono soffocati nell’utero celebrale dall’incapacità di dare struttura, fisionomia, linguaggio, tempi, musicalità, alle vicende narrate. E perciò perfino i passaggi più provocatori della fiction lasciano del tutto indifferente lo spettatore non direttamente toccato dalle tematiche. Neppure facendo ricorso a un’ipotetica pasticca di Viagra per la televisione questo sceneggiato riuscirebbe ad attizzare una minuscola scintilla di coinvolgimento sentimentale, figuriamoci di passione.
E qui veniamo al punto. I cacciatori si sono lamentati perché ritengono che la serie tv sia diffamante per la categoria. La scena che ha scatenato le ire degli appassionati dell’attività venatoria, è quella in cui un cacciatore prima fa la pipì (“per marcare il territorio”, come chiosa con una battuta il Guardiacaccia che l’osserva con il binocolo insieme al fido collega: un altro belloccio tipo Raoul Bova che non c’entra una mazza), poi sorseggia della grappa da una borraccina in latta e infine, confondendola per un animale selvatico, spara per errore a una ragazzina uccidendola sul colpo. La provocazione è forte, e potrebbe anche essere interessante, ma è talmente costruita e raccontata male a livello di sceneggiatura e di regia - sia prima che dopo la fucilata - da risultare un “bimbicidio” da caccia grottesco, del tutto innaturale e anaffettivo.
Ora, sappiamo bene che la morte violenta di un giovane, è una delle tragedie più difficile da rappresentare. Occorre particolare sensibilità e l’evento va in qualche modo preparato, contestualizzato, valorizzato. Qui invece l’assassinio della ragazzina accade e scompare come se si trattasse di una scena qualsiasi: la ripresa di una nuvoletta passeggera. La carne del dramma, con i suoi artifici retorici, è solo sfiorata a pelo d’acqua, per usare un eufemismo.
Ma pure nelle altre puntate i cacciatori, sostanzialmente presentati come dei selvaggi omertosi, ne combinano di tutti i colori: tra un episodio e l’altro un ungulato in agonia viene finito a sassate; il guardiacaccia protagonista è ferito per errore da uno sparatore distratto che credeva che il suo cane avesse puntato una beccaccia; una sorta di grossista del bracconaggio di camosci viene smascherato dal protagonista (ma dopo aver ammesso la sua colpa durante l’interrogatorio va a finire a birrette con il Guardiacaccia, mon dieu….); un altro bracconiere, ma per sopravvivenza e non per vocazione, dopo aver minacciato il nostro eroe con un fucile mentre fugge su una cima con un ungulato in spalla, si schianta in un dirupo come un babbeo. E crepa (ma, tranquilli, fortunatamente ci penserà il Guardiacaccia, per farsi perdonare, a sfamare con la carne selvatica la vedova e gli orfani della vittima). Insomma, i cacciatori nella peggiore delle ipotesi vengono dipinti come degli assassini, nella migliore come degli orbi distratti a mano armata. Bene ma non benissimo.
Questa, tuttavia, è una faccenda autoriale e noi siamo contrari a qualsiasi tipo di censura o di “cencellismo” narrativo: una scelta può disturbare il pubblico ma è di per sé legittima se ben confezionata. Nel servizio pubblico deve quindi essere possibile realizzare uno sceneggiato dove i buoni o i cattivi sono protagonisti e stanno solo da una parte. E dove gli autori possono scegliere quale parte raccontare. Anche a costo che il loro sguardo sia impregnato da una visione ideologica che può innescare le proteste legittime di chi la pensa diversamente. Si chiama dibattito.
Il problema, qui, per quanto ci riguarda, è la qualità del prodotto e soltanto quella. Altrimenti è politica. Quella politica che a nostro avviso dovrebbe rimanere (sempre) all’esterno dei cancelli della fabbrica televisiva. E viceversa.
La libertà di espressione deve prevalere in ogni caso: compreso nello spazio temporale che ci separa da qui al 4 marzo. E in questo senso è fuori luogo minacciare una querela per una fiction, come hanno fatto i cacciatori nella lettera indirizzata a Maurizio Canetta, a cui il direttore della RSI risponderà privatamente. Così come sarebbe sciocco orientare il proprio voto sulla No Billag in base a una trasmissione che è piaciuta o meno. Non da ultimo: sia alla RSI in quanto azienda produttrice, sia a chi ci lavora, va concessa la possibilità di sbagliare. Non tutti i programmi escono con il buco.
Però, in piena coerenza con questa linea, è giusto continuare a dibattere criticamente e liberamente - anche in questo tempo che ci separa dalla votazione - su tutti i contenuti proposti dal servizio pubblico. E sui relativi costi. Senza tabù o censure da campagna elettorale.