Le leggi sono cambiate, le banche hanno perfezionato sempre di più il loro sistema di controllo interno. Eppure, in Ticino come altrove la criminalità finanziaria continua a coinvolgere gli istituti di credito. Perché? Il giornalista della RSI Francesco Lepori ha provato a rispondere con un libro
Si inizia con i crac bancari degli Anni Settanta. L’enorme afflusso di capitali italiani provocò una crescita incontrollata del settore, trasformando presto l’Eldorado della finanza in un autentico Far West. Prima con il tracollo di istituti dissanguati dai loro stessi proprietari (la Inter-Change di Chiasso e la Vallugano). Poi con i dissesti figli di una concorrenza sfrenata. Nel marzo del 1977 chiuse i battenti la Weisscredit. Qualche settimana dopo, il 14 aprile, scoppiò lo scandalo Texon. Al Credito Svizzero di Chiasso era stata creata una voragine di oltre un miliardo di franchi, che rischiò di mandare all’aria l’intera banca.
Il secondo capitolo esamina le malversazioni commesse esclusivamente dall’interno. Il caso classico è il “buco tappa buco” prodotto con le operazioni di borsa. Il più clamoroso resta quello di 222 milioni di franchi, che un cambista della filiale luganese della Lloyds Bank polverizzò a cavallo tra il 1973 e il 1974. Ma l’elenco è lungo, dai 21,5 milioni bruciati in Banca dello Stato del Cantone Ticino nel 2001 ai 93 milioni dilapidati alla Raiffeisen di Balerna nel 2003. Per non parlare degli episodi sfociati addirittura in fatti di sangue.
La terza parte analizza le truffe architettate con l’appoggio (o su iniziativa) di figure esterne alla banca. Alcune delle più importanti sono legate all’oro. Tutti ricordano il rocambolesco furto di oltre mille chili sottratti, negli Anni Novanta, dal caveau dell’UBS di Chiasso. Senza dimenticare i disastri causati per la realizzazione di progetti commerciali, veri o presunti, come la fantomatica piantagione di caffè in Argentina che alla BSI di Melide originò, nel 1984, una perdita di 80 milioni di franchi.
Altro grande tema: il riciclaggio di denaro. Il Ticino è passato alla storia per la famosa “stagione dei narcodollari”. Nel 1985 si tenne il processo della “Pizza Connection”; nome tratto dalla rete di pizzerie che la mafia utilizzava, negli Stati Uniti, per smerciare l’eroina comprata dai trafficanti turchi e raffinata in Sicilia. I guadagni finivano in Ticino, e servivano sia a coprire i costi, sia ad acquistare altre partite di morfina-base. Eroina, ma anche cocaina. Nel 1990 la “Lebanon Connection” portò alla condanna di due cambisti siro-libanesi che avevano “ripulito” i proventi milionari del cartello di Medellin. Dalla vicenda scaturirono le dimissioni della prima consigliera federale svizzera e del procuratore generale della Confederazione.
Le varie inchieste hanno acceso i riflettori sul Ticino, che in compenso è diventato il capofila dei progressi compiuti a livello legislativo. La risposta al caso Texon, ad esempio, fu la celebre Convenzione di diligenza delle banche, siglata nel 1977. Il quinto capitolo riassume proprio l’evoluzione a cui si è assistito: tanto in diritto, quanto nell’ambito dei controlli interni. Le banche hanno intrapreso sforzi notevoli. Basti pensare al potenziamento dei settori del Compliance e del Risk Management. Oppure alle misure puntuali adottate sul fronte della sicurezza, soprattutto grazie allo sviluppo dell’informatica.
La tecnologia ha generato però anche nuove minacce, come le criptovalute. FINMA ed Europol hanno lanciato l’allarme: le monete virtuali, che non sottostanno a un’autorità centrale e che offrono la garanzia pressoché assoluta dell’anonimato, sono lo strumento perfetto per “lavare” i soldi sporchi. Una volta di più la criminalità è scattata in avanti, verso un futuro che sa di… passato.