Il primo transgender eletto in un Consiglio comunale si scaglia contro l'interpellanza di Soldati e Pellegrini: "Non avete le competenze professionali per porre domande simili. Ora la bimba sarà discriminata per colpa vostra"
di Nash Pettinaroli*
Il caso del “bambino” che desidera, attraverso i genitori, essere chiamato con un appellativo femminile ha colpito la mia attenzione. Molti conoscono la mia storia, non ne ho mai fatto mistero e, anzi, ho sempre cercato di condividerla per aiutare chi è intrappolato in un incubo incomprensibile per coloro che non lo vivono.
Ho letto che questo “caso” preoccupa i deputati UDC Roberta Soldati e UDF Edo Pellegrini che definiscono la cosa addirittura “incresciosa e inaccettabile”.
Ciò che preoccupa me, invece, e che io definisco con i due termini, sono proprio le loro parole. È la loro interpellanza a far sì che questa bambina (sì, bambina!) sia ora discriminata e sulla bocca di tutti. I suoi genitori, che io non conosco, sicuramente non si sono svegliati una mattina con la decisione di chiedere che il loro figlio sia chiamato con un nome e con appellativi femminili. La bambina avrà certamente manifestato, attraverso il comportamento e le parole, ciò che sente di essere e loro (tanto di cappello!) si sono comportati, e si stanno comportando, da veri genitori. Genitori che dovrebbero pensare al bene dei loro figli, come stanno facendo queste due persone, anziché a limitarli, punirli o forzarli a rientrare in una “normalità” imposta dalla maggioranza e dal giudizio degli altri. Appoggiando il “sentirsi bambina” del loro figlio, si sono inoltrati in una scelta difficile, socialmente ardua e non priva di conseguenze: sono persone che meritano un abbraccio, non la pubblica gogna come si faceva nella media aetas. Non conoscendo le vicende personali della famiglia, oso immaginare che ne abbiano anche parlato con chi di dovere, che sicuramente ha molta più facoltà di parola e molta più istruzione nel campo dei due deputati citati.
Io so cosa significa vivere nell’involucro sbagliato. Essere una crisalide che non sa quando diventerà farfalla, che non sa se gli altri ne accetteranno i colori oppure no. Ho sofferto per anni e anni, prima di decidermi a spiccare il volo e ora che sono felice rimpiango di non aver avuto il coraggio di farlo prima. Coraggio che mi è mancato per la paura della società, non per altri motivi.
Personalmente credo che due deputati, un diplomato in matematica e l’altra in legge, non abbiano le competenze professionali per permettersi un’interrogazione come quella presentata. Hanno toccato un argomento molto delicato che chi non ha vissuto o chi non ha conoscenze professionali specifiche del caso, non dovrebbe nemmeno sfiorare. In Ticino ci sono parecchi casi di maltrattamenti e abusi in famiglia, molti bambini portati via dal nucleo famigliare per motivi validi, ma nel 2020 si vorrebbe additare e accusare due genitori che semplicemente hanno capito e accettato la propria figlia secondo la sua identità sessuale. Il fatto che alcune persone non comprendano e non accettino questo tipo di “casi” (come da loro chiamati), non significa che siano da condannare o da pubblicizzare come fossero criminosi.
In Olanda esiste un centro che aiuta questi bambini e le loro famiglie su tutti i fronti, soprattutto quello sociale. Sì, perché al giorno d’oggi i problemi maggiori sono dati dai giudizi della gente, da una società che si professa progressista pur tenendo pronto l’indice che andrà a indicare chi è considerato “diverso”. Ognuno di noi cade nella trappola della “diversità” o, anzi, della “normalità”: un’uniformazione che si prefigge di essere inclusiva, ma che provoca l’effetto contrario.
L’unica cosa davvero inaccettabile è l’interrogazione stessa. Sono molto preoccupato dal pensiero e dalle parole dei due deputati in quanto rappresentano una parte della popolazione in seno a un organo politico molto importante come il Gran Consiglio. E qui non si tratta di sinistra o destra (anche perché ormai tutti sanno che sono un consigliere comunale della Lega dei Ticinesi da 12 anni), si tratta di umanità, di empatia, di rispetto: tutte qualità che, di fronte al giudizio, diventano secondarie.
E ora cosa vorreste che si faccia? Volete obbligare questi genitori a rivolgersi alla loro figlia con nome e termini maschili solo perché “la natura” ha creato un corpo di quel sesso? E, peggio ancora, vorreste obbligare la bambina a subire appellativi che lei non sente appartenerle? E in nome di cosa? A quale titolo? Stiamo parlando di dottrine religiose e di opinioni personali? Perché se così fosse sarebbe piuttosto grave, considerato che il bene di questa creatura non è ciò che VOI credete giusto, bensì quello che lei è veramente. Siamo troppo abituati ad accettare unicamente quello che rappresenta la nostra idea di normalità, dimenticando che dietro a ogni persona c’è una storia che non deve e non può essere sindacata da chi non vi è addentro.
Se altre famiglie sono “preoccupatevi”, ricordate che il problema è delle famiglie stesse, non di chi cerca di esprimere la sua identità. Sono queste famiglie a creare il “problema”, a ingigantirlo e farlo crescere come una ciste all’interno dell’ambiente scolastico. E state sereni, non serve che lei faccia la doccia con gli altri, può benissimo attendere il turno per farla da sola, come è stato per me. Nessuno dei miei conoscenti si è traumatizzato o vive una vita disagiata per colpa mia, né io stesso ho traumi riconducibili a questo. L’unico vero trauma sono state quelle rarissime persone che hanno avuto qualcosa da ridire sulla mia “scelta”, che poi scelta non è. Una volta, una conoscente mi ha detto che avrebbe continuato a chiamarmi “Sara” perché lei non si capacitava del mio cambiamento e non lo accettava in quanto “con tutti i malati gravi che ci sono, è folle che tu vada a farti operare per una cosa del genere”. Cosa ho fatto? Nulla: il problema è il suo, non il mio.
Concludo, anche se vorrei continuare a lungo, chiedendomi se sono davvero queste le cose per le quali battersi e scandalizzarsi; chiedendomi come sia possibile che persone esenti da formazione in campo psicologico si permettano di chiedere al CdS un parere in merito a una questione famigliare, personale e delicata; ricordandovi che sia l’ICD che il DSM hanno depatologicizzato la DIG (disforia di genere) togliendola dal capitolo dei disturbi mentali e riconoscendola semplicemente come “incongruenza di genere”, ovvero il disagio, a volte terribilmente profondo, che la persona prova non riconoscendosi nel sesso di nascita. Persona che, rimanendo in una gabbia simile, può anche cadere in una forte depressione e, se non supportata, decidere di non esistere più. Senza dimenticare che la DIG è totalmente indipendente dall’orientamento sessuale, che è tutt’altra cosa.
In un periodo come questo dovremmo aver imparato a essere più empatici, a comprendere gli altri senza additarli, ma... purtroppo bisogna constatare che l’abitudine di giudicare è sempre più forte della comprensione.
*Consigliere comunale Lega a Agno, primo transgender eletto in un Consiglio comunale