Il direttore di Limes analizza la degenerazione della crisi tra Pechino e Washington dopo la visita di Nany Pelosi a Taipei
ROMA - “Difficilmente tra Stati Uniti e Cina finirà con le buone”. Parola di Lucio Caracciolo. Il direttore di Limes, in un articolo pubblicato sulla Stampa, ha analizzato i possibili scenari della crisi tra Washington e Pechino, degenerata dopo la visita di Nancy Pelosi a Taiwan.
“Cina e Stati Uniti - scrive l’esperto di geopolitica - sono su un piano inclinato che porta alla guerra. Questione di tempi e di modi. L'unica via per impedirla è che entrambi riconoscano il pericolo e accettino di regolare per via negoziale le loro dispute. Ne siamo più lontani che mai. Il provvisorio bilancio della visita lampo a Taiwan di Nancy Pelosi, presidente della Camera americana, ha il merito di svelare che la recita della "Cina Unica" è finita. Si è spenta la luce sul teatro geopolitico sino-americano allestito mezzo secolo fa da Henry Kissinger e Zhou Enlai e codificato nel 1992, che ambiguamente consentiva il riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese da parte americana a scapito della Repubblica di Cina, come allora Taiwan preferiva definirsi”.
“Stiamo ai fatti - prosegue nella sua analisi Caracciolo - . La terza carica della repubblica americana compie quella che di fatto è una visita di Stato nella capitale dell'isola contesa. Viene accolta con tutti gli onori dalla presidente della Repubblica della Cina che non riconosce, con reciproca effusione di calorosa simpatia, mentre l'altra Cina, che Washington riconosce, allestisce un blocco aeronavale provvisorio lungo le coste della "provincia ribelle" contro cui annuncia sanzioni commerciali senza precedenti. Con linguaggio che sinistramente evoca la "operazione militare speciale" della Russia contro l'Ucraina, Xi Jinping denomina "operazioni militari mirate" le manovre che configurano l'accerchiamento di Taiwan, previsto durare dal 4 al 7 agosto. In queste ore le navi di Pechino incrociano ben dentro quelle che sarebbero le acque territoriali di Taiwan, ma che per Xi non esistono perché non esiste altra Cina al di fuori della sua. Data la robusta presenza aeronavale americana nell'area, il rischio di un conflitto per incidente è palpabile. Né Washington né Pechino paiono oggi disposte allo scontro. Ma, si sa, le guerre non sempre si decidono. Accadono”.
“C'è un paradosso - argomenta ancora il direttore di Limes - nella missione di Pelosi. Biden l'aveva sconsigliata, riferendo in pubblico che il Pentagono la considerava "non una buona idea". Il presidente in carica ci ha abituati a queste piccole frasi - ricordate l'ok a Putin per una "incursione minore" in Ucraina pochi giorni prima dell'attacco? - inusuali per un portabandiera della potenza massima. E tuttavia tanti presunti lapsus fanno uno stile di comunicazione che va preso per tale. Nel caso, oltre a due Cine dobbiamo considerare due Americhe? O meglio, due linee sulla Cina rappresentate dal presidente e dal capo del parlamento, responsabili di due delle tre branche più o meno autonome del governo americano, volute dai padri fondatori per scongiurare derive autoritarie? Probabilmente si tratta di differenze tattiche, non strategiche. Obiettivo inespresso ma condiviso dagli strateghi americani è la fine del regime comunista e la nascita di diverse Cine più o meno indipendenti. Così scongiurando la minaccia del "sorpasso" della Cina sull'America. Ma una cosa è fissare l'orizzonte di medio-lungo periodo, altra spingere involontariamente verso la resa dei conti. L'America non vuole la guerra, né oggi né domani. Spera che dopodomani la questione cinese si risolva da sola, per suicidio del regime comunista, in perfetto stile sovietico. Ma è pronta a combattere oggi, domani o dopodomani se Pechino attaccasse Taiwan. Semplicemente non può non farlo. Perché se rinunciasse a difendere la "sua" Cina consegnerebbe all'altra Cina lo scettro di Numero Uno planetario”.
“Anche la Repubblica Popolare - termina Caracciolo - parrebbe non avere interesse alla guerra. È militarmente inferiore, almeno sulla carta, anche se combatterebbe "in casa". Soprattutto, metterebbe in gioco la sua stessa sopravvivenza. Quantomeno comprometterebbe quarant' anni di vertiginosa ascesa dalla povertà più aspra al benessere relativamente diffuso, base del consenso al regime. Xi Jinping ha però deciso di porre un ultimatum a sé stesso e ai suoi eventuali successori avvertendo che Taiwan tornerà a casa (in realtà, l'isola con il suo arcipelago non è mai stata governata dalla Cina di Mao) entro il 2049. Con le buone o con le cattive. La partita sarà probabilmente risolta prima di quella scadenza. Difficilmente con le buone. A quel punto forse scopriremo che per realizzare il sogno della Cina davvero Unica Xi ne avrà prodotte una mezza dozzina. Le due Cine, di fatto battezzate da Pelosi, sono ottimo viatico verso questo obiettivo. Sapore di ultimi riti”.