A nove mesi dalla sua introduzione, inchiesta del Federalista sui primi effetti del patto tra Italia e Svizzera. Non butta benissimo...
di Luca Robertini - articolo pubblicato su ilfederalista.ch
Che il nuovo accordo fiscale avrebbe reso meno attrattivo per i nuovi frontalieri lavorare in Svizzera era prevedibile. Si sapeva anche che avrebbe costretto le aziende, nel lungo termine, a rivedere le retribuzioni per attirare personale. Che alcune imprese si sarebbero invece trovate da subito a dover fare i conti con grosse difficoltà -logistiche ed economiche-, lo si era forse un po’ sottovalutato.
Ricapitoliamo, a beneficio dei non addetti ai lavori: il nuovo accordo, in vigore da gennaio 2024, prevede che i frontalieri residenti entro 20 km dal confine e che abbiano iniziato a lavorare in Svizzera dopo il 17 luglio 2023 paghino le imposte sia in Svizzera che in Italia. Questo cambiamento aveva obiettivi bilaterali: per l'Italia, recuperare entrate fiscali e trattenere lavoratori nel Paese; per il Ticino, ridurre l'attrattività del lavoro frontaliero, sperando che ciò avrebbe spinto i salari verso l'alto.
Tutti coloro che abbiano lavorato come frontalieri tra il 31 dicembre 2018 e il 17 luglio 2023 rimangono “vecchi frontalieri fiscali”, ovvero frontalieri che pagano le imposte solamente in Svizzera.
D’altra parte, visto che già nel 2023 si parlava di quasi 80'000 lavoratori, si presumeva di poter fare affidamento su di essi, evitando –per qualche anno almeno- di doversi confrontare con una carenza di personale e con maggiori pretese salariali da parte dei nuovi frontalieri. Ma forse si sono fatti male i calcoli.
Ne è convinto Stefano Modenini, direttore dell'Associazione delle industrie ticinesi (Aiti), che però puntualizza subito come sia “passato ancora troppo poco tempo per poter giudicare le ripercussioni del nuovo accordo fiscale sui lavoratori frontalieri”. Tuttavia, ricorda che le premesse erano chiare: “Nell’industria sono attivi circa 16'500 frontalieri su 30'000 lavoratori, e la maggioranza di questi frontalieri ha più di 50 anni. Ciò significa che, man mano che questa generazione giunge all’età del pensionamento, si pone il problema della loro sostituzione”.
Troppo presto per trarre conclusioni? Forse, ma per Modenini una cosa è certa: l’accordo fiscale, unito alle richieste delle nuove generazioni che desiderano modalità e tempi di lavoro diversi, “non potrà che acuire il problema della mancanza di manodopera e metterà alla prova l’esistenza stessa di molte attività economiche. Detto questo, siccome l’industria è un settore che richiede specializzazioni, è evidente che per convincere le persone a venire a lavorare da noi occorrerà agire anche sulle remunerazioni”.
Salari più alti per tutti?
Aumento delle retribuzioni? Facile a dirsi, ma non per tutti scontato. “Si è innescato un meccanismo per cui tutti cercano di aumentare il proprio stipendio", rileva un dirigente industriale da noi contattato e che desidera mantenere l’anonimato (lo designeremo come dirigente di ‘azienda1’). Il riferimento è alla produzione (quindi non ai quadri dirigenziali o all’amministrazione). Approfondisce: “Molte persone, tra cui molti vecchi frontalieri, cercano un nuovo lavoro intuendo la possibilità di ottenere un salario più alto. Vedendo i loro colleghi, nuovi frontalieri, percepire salari più elevati, puntano a nuovi posti di lavoro con aspettative salariali più alte”.
Infatti, lo stesso dirigente ci spiega che per assumere nuovi frontalieri, l'azienda per cui lavora ha appunto dovuto concedere aumenti salariali, visto che con i salari dello scorso anno era diventato difficile reclutare lavoratori soggetti alla doppia imposizione fiscale. Era d’altronde previsto, poiché il fisco italiano è noto per la sua esosità. Quello che non era previsto è che le richieste salariali si sarebbero diffuse anche tra i vecchi frontalieri.
Una situazione che mette in difficoltà l'azienda: “Per noi è un grosso problema”, conferma il dirigente di azienda 1, “ci troviamo a investire moltissimo nella ricerca di personale per poi scoprire, nella maggior parte dei casi, che chi si presenta ai colloqui non è motivato da stimoli o ambizioni particolari, ma solo dalla prospettiva di migliorare la propria condizione salariale” (necessaria, come detto, per affrontare l’imposizione fiscale italiana, assai più esigente di quella elvetica).
Ma per i “vecchi frontalieri”, come spiegare le maggiori pretese salariali? Il dirigente conferma infatti un certo malcontento tra i dipendenti di lungo corso, che percependo lo stipendio a suo tempo pattuito, si trovano al fianco colleghi entrati nell'ultimo anno con il beneficio di un salario lordo più alto (pur percependo –considerati gli esborsi fiscali- in definitiva lo stesso netto). È naturale che in questi lavoratori si insinui il dubbio che l’azienda avrebbe potuto concedere anche a loro un salario più alto. Forse -ragioniamo- questo innesca anche in loro il desiderio di cambiare lavoro onde ottenere una retribuzione migliore. E così, per l'azienda, il problema della carenza di personale si acuisce.
La preoccupazione del dirigente è condivisa da Stefano Modenini: “È chiaro che l'azienda viene messa sotto pressione, ma è altrettanto chiaro che l'aumento della massa salariale non può essere né automatico né infinito. Bisogna quindi lavorare anche sulla produttività, affinché il costo del lavoro incida meno sull’insieme dei costi aziendali. In sintesi, aumentare il salario a tutti non è possibile né giusto”. Inoltre, secondo Modenini, non si dovrebbe guardare solo agli aspetti salariali: “Sempre più persone chiedono alle aziende prestazioni e servizi, ad esempio, allo scopo di conciliare il tempo di lavoro con quello dedicato alla famiglia”.
Si alzano gli stipendi alti, ma non i minimi
Il problema della carenza di manodopera non sembra toccare allo stesso modo tutte le aziende. Il rappresentante di un'altra realtà, che chiameremo ‘azienda2’ (anche qui a beneficio dell'anonimato), ci ha infatti chiarito che, sebbene "il nuovo accordo abbia sicuramente ridotto l'attrattività del Ticino e la capacità delle aziende di assumere personale", l’impresa in questione è comunque riuscita ad assumere il personale necessario per sostenere i propri bisogni. “Laddove necessario, è stato aumentato il salario lordo, incrementando il costo del personale, ma senza mettere in difficoltà l'azienda”.
L’azienda2 rappresenta tuttavia una realtà assai diversa rispetto all’azienda1: due mondi differenti, ma entrambi appartenenti al settore industriale. Pur nel rispetto dell’anonimato, ci sembra importante evidenziare un aspetto. Se in azienda1 si parla di scarsità di personale e aumento dei salari nella produzione, la situazione in azienda2 è diversa: “Il calo di attrattività", ci spiegano, “si manifesta soprattutto per i quadri dirigenziali e dell’amministrazione, mentre per il personale di produzione incide in maniera sensibilmente ridotta”.
Una possibile spiegazione di questa differenza, suggerita dal nostro contatto in azienda1, potrebbe risiedere nella diversità di qualifica e, verosimilmente, di salario tra gli impiegati in produzione. Se in azienda1 chi lavora in produzione è altamente qualificato e soggetto a un contratto collettivo, lo stesso potrebbe non valere per azienda2, che sicuramente non aderisce a un contratto collettivo e probabilmente impiega personale meno qualificato.
Sottostare a un contratto collettivo generalmente significa avere salari minimi più alti. In azienda1, i salari in produzione variano da un minimo di circa 3.700 franchi a un massimo di 5.500 franchi. Azienda2 non ci ha fornito dettagli sui salari, ma si può supporre che i minimi in produzione siano simili a quelli legali nel Cantone (circa 3.200 franchi) e che la forbice salariale non sia così ampia, soprattutto se il personale non è altamente qualificato come in azienda1.
Sorge quindi un dilemma: come è possibile che chi già pagava di più si trovi ora a faticare maggiormente nel reperire personale e debba di conseguenza alzare ulteriormente i salari? Ne parliamo con Andrea Puglia, che per anni ha lavorato in prima linea nell’Ufficio Frontalieri di OCST ed è oggi vicesegretario dello stesso sindacato.
Meno attrattivi per la manodopera specializzata
“In ottica di accordo fiscale”, introduce, “la situazione per l’industria è un po' più critica rispetto ad altri settori. L'industria moderna richiede spesso profili specializzati, capaci di dialogare con le macchine. In generale, questi profili sono rari nel mercato del lavoro. Se prima, grazie alla tassazione agevolata, li si attirava in Svizzera, oggi è un po' più difficile”. E approfondisce: “L'operaio specializzato in Italia ha comunque oggi un salario relativamente dignitoso e beneficia di molte tutele. Spostarlo in Svizzera si rivela più complicato. Se prima, di fatto, raddoppiava il suo salario, ora l’introito non rappresenta più il doppio. Con l’aggiunta che le industrie italiane, proprio per trattenere questi profili specializzati, tendono ad aumentare i loro salari”.
Ma torniamo alla domanda: perché alcune aziende faticano a reperire manodopera per la produzione mentre altre no? “Dipende dal tipo di profilo che si cerca. I profili poco specializzati in Italia guadagnano pochissimo”, spiega Puglia, “e quindi sono ancora oggi facilmente attratti: poiché i loro salari sono bassi, anche le imposte sono percentualmente più basse. Al netto delle imposte, il salario svizzero, anche se un po' più basso rispetto al passato, resta comunque superiore a quello italiano, attirando soprattutto chi in Italia ha salari modesti”.
“La situazione cambia”, continua, “quando si alza il livello. Trovare ingegneri non è più così semplice, o meglio, li si trova ancora, ma, tenuto conto anche delle imposte più alte che pagheranno in Italia, l'offerta di lavoro dovrà essere più allettante rispetto a prima”.
Queste impressioni ci vengono confermate – con ulteriori dettagli – da Mauro Pellicciari, dell’Ufficio Frontalieri dell’OCST, che negli ultimi mesi ha fornito circa settecento consulenze a nuovi frontalieri, interessati a capire l’impatto della tassazione italiana sui loro salari. Un numero significativo, che ha permesso a Pellicciari, pur non avendo dati precisi, di intuire alcune tendenze.
Essere frontaliere conviene ancora? Sì, ma non per tutti.
“Penso sia importante dire innanzitutto”, spiega Pellicciari, “che le persone che mi hanno detto apertamente di voler rinunciare a un’offerta di lavoro a causa delle imposte da pagare le conto sulle dita di una mano. Questo perché, se si confronta la tassazione di un vecchio frontaliere con quella di uno nuovo, la seconda è sicuramente più alta. Tuttavia, il nuovo frontaliere non confronta la sua situazione con quella di un vecchio frontaliere, ma con quella di un lavoratore italiano”.
Facendo i conti in questo modo, il frontaliere, spiega Pellicciari, gode ancora di tre vantaggi inconfutabili: “Il primo è legato al cambio: con un franco così forte, il vantaggio economico è significativo. Il secondo è che, a parità di stipendio tra Italia e Svizzera, il nuovo frontaliere ha comunque –come stabilito in una clausola del nuovo accordo- 10.000 euro di reddito esentasse in Italia, cosa che i lavoratori italiani non hanno, poiché pagano le imposte sull’intero salario. Il terzo vantaggio è che, a parità di mansione rispetto all’Italia, in Svizzera si ha un salario lordo più alto”.
“Tuttavia”, precisa Pellicciari, “ci sono casi in cui il salario lordo in Svizzera è solo leggermente più alto rispetto a quello italiano, ma in Italia questa differenza viene compensata da strumenti che in Svizzera non esistono. Mi riferisco al welfare aziendale, che include indennità di mensa, quattordicesima o quindicesima mensilità, contributi aggiuntivi al fondo pensione privato, pagamento delle rette scolastiche o dell’asilo. Non si tratta di salario diretto, ma è comunque un valore economico rilevante per il lavoratore, poiché in Italia questi benefici sono spesso detassati o addirittura esentasse”.
“Quindi sì, accade che qualcuno rinunci a lavorare in Svizzera”, conclude, “ma quasi esclusivamente per posizioni di rilievo. Mi riferisco a persone con salari annuali offerti intorno ai 100.000-120.000 franchi. In questi casi, la tassazione italiana –che il nuovo frontaliere deve aggiungere a quella svizzera- pesa molto (parliamo di 35.000-40.000 euro l’anno), e non avendo accesso a benefici aziendali, la differenza di guadagno netto si riduce notevolmente.
Meno frontalierato e più immigrazione?
Se vogliamo entrare ancor più nel particolare, scopriamo un dettaglio interessante. Sempre Pellicciari: “Si notano movimenti diversi rispetto al passato. Una persona di Milano, per esempio, se veniva assunta decideva di spostarsi in fascia di confine per sfruttare i vantaggi fiscali del frontalierato (imposizione fiscale solo in Svizzera) e accorciare la distanza dal lavoro. Oggi, soprattutto persone senza figli o vincoli familiari, valutano sempre più spesso di ottenere il permesso B e trasferirsi in Svizzera. Tuttavia”, precisa, “questa scelta riguarda solo persone con salari elevati. Una persona con un'offerta di lavoro di 4.000 franchi mensili non pensa di trasferirsi in Svizzera perché a causa dei costi non riuscirebbe a mantenersi.”
Quindi, quasi nessuno rinuncia. Anche perché i lavoratori di cui il Ticino ha bisogno, sanno di avere il coltello dalla parte del manico: “Mi è capitato spesso”, racconta Pellicciari, “di offrire consulenze a persone che, dopo aver ricevuto un primo conteggio con un determinato salario, mi hanno ricontattato per riformularlo sulla scorta di una cifra più alta. Queste persone, ovviamente, hanno contrattato con l’azienda, sfruttando il peso della tassazione italiana come leva”. Di che aumenti si parla? “Aumenti di qualche centinaio di franchi. Ho però visto il caso di un ingegnere civile cui è stato concesso un aumento di 1.000 franchi al mese, partendo da un salario di 7.500 franchi lordi.”
Chiudiamo con due opinioni riassuntive. Stefano Modenini: “Il nuovo accordo fiscale sui frontalieri è una stupidaggine. Presentarlo come soluzione per ridurre il numero dei frontalieri nel Cantone, oltre che rivelarsi fasullo, ha dimostrato scarsa lungimiranza. La mancanza di personale diventerà il problema principale per il Cantone, in tutti i settori economici e nel pubblico.”
Anche Andrea Puglia è assai perplesso: “Chi promuoveva l'accordo da parte svizzera lo presentava come la soluzione al dumping salariale. In realtà, paradossalmente, i salari più bassi, quelli che realmente creano dumping, sono poco toccati dalla tassazione italiana. Questi lavoratori accettano comunque le offerte di lavoro senza rinegoziare troppo lo stipendio. Al contrario, coloro che sono realmente penalizzati dalla tassazione italiana, e che cercano di rinegoziare i salari, sono i profili ad alto valore aggiunto, che già partono con una buona offerta salariale in Svizzera.”
C’è invece da scommettere che a Roma, nei palazzi della ben nota Agenzia delle Entrate, ci si sfreghino le mani.