Abbiamo trascorso un'intera giornata insieme ai giornalisti della trasmissione più seguita della radiotelevisione pubblica. Ecco come lavorano e cosa ci hanno raccontato. Il responsabile dell'informazione regionale dice la sua anche sulle ultime polemiche: "Pagarci il canone? Disponibile da subito. E c'è chi sta raccogliendo le firme per chiederlo...."
La redazione, qualunque redazione, è tutto e il suo contrario. Ha la sacralità di uno spogliatoio di una squadra di calcio: uno spazio inviolabile per chi non fa parte del gruppo. Ma è pure un porto di mare dove c’è chi si ferma per un giorno, per una stagione, per sempre.
In redazione si cesellano parole e si ruttano parolacce. Si custodiscono segreti per poi spiattellarli. Si sussurra come in un confessionale e si spettegola vociando come in lavanderia. Cinismo e commozione si tengono a braccetto. È tutto un guazzabuglio di sacro e di profano.
Un sacrilegio giornalistico
Ecco: questo articolo rientra tra i sacrilegi giornalistici. C’è infatti un “che" di blasfemo, professionalmente parlando, nell’invitare un collega di un’altra testata, cioè chi scrive, a trascorrere un’intera giornata nel cuore del Quotidiano: la trasmissione più seguita della RSI. “Il Quot.”, in slang comanese.
Ai lettori, dunque, che giustamente ignorano le bizzarrie interne al mondo dell’informazione, chiedo di tener presente questo atto di paradossale galanteria: un gesto per nulla scontato. E dirò di più: se io fossi stato dall’altra parte, pur sprovvisto di fede nel giornalismo, probabilmente mi sarei opposto.
E allora qual è il motivo di questa stravaganza? Raccontare un punto di vista, ribaltare una prospettiva, portare alla conoscenza delle persone uno spaccato inedito. Cioè fare cronaca, che significa innanzitutto porre domande, ascoltare risposte, cogliere sguardi, e poi riferire. Nel modo più onesto e preciso possibile. Benché soggettivo, inevitabilmente.
Porte spalancate
La redazione del Quotidiano mi ha spalancato le porte. Ho avuto accesso ai luoghi. Ho preso parte alle riunioni. Ho ascoltato le telefonate, le discussioni sulla scelte delle notizie, gli scazzi e la goliardia da locanda per balenieri. Ho parlato con i giornalisti. Insomma, mi è stato concesso tutto.
Ho scelto di non affiancare alle confidenze che ho raccolto, il nome dei colleghi che me le hanno fatte. Spersonalizziamo i concetti, come un esercizio di elasticità mentale. Una sorta di sudoku per allenare il senso critico. Per questa volta facciamo circolare le idee senza abbinarle a una faccia e alle relative simpatie o antipatie che, inevitabilmente, i volti producono. Un antidoto al pregiudizio, se volete. Gli unici virgolettati “firmati” che leggerete, quindi, saranno quelli del responsabile dell’attualità regionale Massimiliano Herber: la sua intervista farà da fil rouge al racconto.
Ultima cosa, poi la smetto, promesso, con i miei “pipponi” (come li definisce Herber): un po’ di pazienza e via i preconcetti. Leggete, valutate e poi scegliete se tener buono o gettare via questo tassello per comporre il mosaico della vostra opinione in vista del 4 marzo.
La riunione di redazione
L’appuntamento è per le 8.30, puntuali. Massimiliano Herber mi accoglie e mi scorta subito in redazione: un grande open space al terzo piano della sede della radiotelevisione pubblica a Comano. Non c’è bisogno di grandi presentazioni con i colleghi, essendoci incrociati negli anni una volta lì e un’altra volta là. Un paio di giornalisti sono già fuori a lavorare. Subito in riunione. L’appuntamento - in una saletta con qualche fila di seggiole verdi davanti alla scrivania dove siedono il capo edizione e la segretaria di redazione - si apre con un’analisi critica del telegiornale della sera precedente.
Il capo edizione - un caporedattore che ruota ogni quattro giorni fra cinque giornalisti designati - oggi è Christian Romelli. Il collega illustra ciò che a suo avviso è andato bene e ciò che no. Ci sono stati un paio di errori: uno giornalistico e uno tecnico. Se ne discute e alla fine si concorda che quegli sbagli ci sono stati, effettivamente. E si fa un nodo al fazzoletto per non ricascarci la prossima volta. Si passa quindi all’assegnazione dei servizi, con la scaletta proiettata su un grande schermo. Conferenze stampa per di più e qualche verifica su casi in evoluzione (Lugano Airport) e possibili sorprese dalle riunioni politiche con cadenza settimanale.
“Quando alle 9 del mattino la scaletta è già così piena, non si preannuncia come una buona giornata, giornalisticamente parlando”, mi dice Herber. Ha ragione ma in effetti l’avanzare delle ore smentirà il pronostico con una pioggia di notizie.
Finita la riunione l’open space si svuota. Restano in pochi. Romelli, che deve tessere la tela dell’edizione, la presentatrice di giornata, Laura Pozzi, il regista, qualcuno che uscirà nel pomeriggio o che si tiene pronto a sellare le news che arriveranno in giornata.
Gli scaffali in stile DDR e “Le cronache dalla pancia del privilegio”
Comincio a chiacchierare con Herber, mentre ci spostiamo nel suo ufficio adiacente alla redazione. Nota di colore (rossa): fuori dalla stanza di Max c’è un casellario della posta in legno per i dipendenti. Arredamento in stile DDR… dai, che si fa per ridere.
“Sei venuto a fare le cronache dalla pancia del privilegio…”, mi dice con una bella dose di autoironia il responsabile del Quotidiano. E mi sento come un Giona sprovvisto di profezie. Ma a differenza del profeta so già che la balena mi sputerà fuori dalle viscere dopo appena un giorno, anziché tre. E senza neppure lo sforzo di rivolgere una supplica al cielo.
“Pagare il canone? Senz’altro! E stiamo raccogliendo le firme….”
Il riferimento della battuta di Herber è a uno dei miei ultimi articoli, in cui suggerivo ai dipendenti della RSI di prendere posizione contro un benefit simbolico: ovvero il pagamento del canone da parte dell’azienda ai suoi dipendenti. Partiamo da qui e lui mi dice subito che ritiene giusto che i lavoratori della radiotelevisione paghino il balzello. “Senz’altro! Dal 2019, con il cambio di sistema di riscossione, succederà. Ma personalmente c’è piena disponibilità a rinunciare a questa esenzione anche da subito. E non sono solo io: ci sono colleghi che stanno raccogliendo le firme per chiederlo. Ma secondo te, poi, questo segnale come sarebbe letto? Come un atto di paraculaggine?”. È possibile, ma meglio paraculi che privilegiati, nell’immaginario collettivo. Forse. “La No Billag però non tratta di questo argomento…”, chiosa il discorso.
“Io comunque mi sento un privilegiato - riflette Herber - rispetto ad altri lavoratori ed altri luoghi di lavoro. Ma sai perché? Non per l’esenzione del canone, ma perché facciamo una professione bellissima e con dei mezzi adeguati per poterla svolgere al meglio. E poi perché questo mestiere ti permette di conoscere e incontrare persone, ti dà una scarica di adrenalina ogni giorno e tanta, tanta, responsabilità… verrebbe da citare Spiderman (sorride, ndr.). Lavorare alla RSI e contribuire ogni giorno a confezionare il Quotidiano, in effetti, è un grande privilegio. Ma anche per la Svizzera italiana, per il Ticino, in fondo, è un privilegio avere una radiotelevisione pubblica che parla italiano, tutta per noi: siamo un piccolo territorio, siamo in pochi e se ci pensi non è un vantaggio da poco avere la RSI”.
L’e-mail di protesta del politico e il "buon 4 marzo"
In ufficio fa capolino Alain Melchionda per confrontarsi sull’approfondimento che dovrà condurre. Si parla di cifre, grafiche, titoli. E nel frattempo il telefono di Max frigge di relazioni, spifferi, indizi, embrioni di notizie. C’è anche un’e-mail di un politico che si lamenta per un servizio. E dalla lamentela, come spesso capita di questi tempi, viene agitato tra le righe lo spettro della No Billag. “Stavolta ha ragione”, afferma Herber (e glielo scriverà nella risposta). Quel che non dice tuttavia, ma che mi pare di cogliere, è una smorfia di delusione. Tradotto: perché insieme alla critica devi sbattermi in faccia anche l’iniziativa?
E in effetti, quando torno in redazione per lasciarlo rispondere all’e-mail, questo tema ritorna. “L’iniziativa - mi dice un collega - aleggia un po’ come una cappa sulla RSI. L’altro giorno, mentre filmavamo una persona nota che non voleva essere ripresa, questa ci ha detto soltanto: Billag! Capito il senso? Come se fosse una minaccia…”. Mi sovvengono i racconti recenti di altri due colleghi della RSI. Il primo mi ha riferito di essere stato perculato mentre con la famiglia faceva acquisti in un negozio a buon mercato: “Ma che ci fai qui? Fino al 4 marzo con quello che guadagni non puoi permetterti di meglio?”. All’altro invece l’augurio di licenziamento (il “buon 4 marzo”) è stato fatto mentre, a bordo campo, lavorava seguendo una partita di pallone. “A me possono anche lasciarmi a casa, ma se passa l’iniziativa perde il lavoro anche chi mi riprende, sei d’accordo?”, gli ha risposto con finezza il collega.
Nessun vittimismo ma un po’ di amarezza
Insomma, il tema della battuta, del dileggio e, talvolta, dell’arroganza, soprattutto da parte di chi occupa una posizione di potere, è tangibile, esiste, c’è. E francamente, senza complicità, alla lunga non è affatto un’esibizione dignitosa o divertente quella di che recita questo copione. Ma solo lo sfoggio di un’idiozia prepotente. Della peggior specie, per giunta, perché prevedibile, noiosa.
Parere personale perché nelle chiacchiere che ho avuto con i miei colleghi del Quotidiano non ho raccolto uno straccio di vittimismo. Zero. Nessuno ha fatto il piangina. Ho anzi osservato un gruppo tosto, affiatato, solidale, presente a se stesso e ai suoi doveri. Ma un po’ di amarezza, anche profonda, questa sì, l’ho percepita. E la segnalo.
“Il sottile livello di autocensura”
Torniamo al racconto. “Cerchiamo di non pensarci - mi dice un altro giornalista mentre discutiamo in redazione - ma è complicato. Anche perché quasi ogni giorno esce un articolo, o un post su Facebook... che in pochi minuti comincia a circolare. È oggettivamente difficile estraniarsi, sempre e comunque, quando c’è di mezzo il tuo posto di lavoro. Anche perché alcuni cercano di approfittarsene. È un po’ come se fosse stata messa una pistola in mano alla gente. Alcuni la maneggiano con cura e rispetto - al di là di come voteranno, dico - altri invece te la puntano e tolgono la sicura, con il dito sul grilletto. E questo inconsciamente può produrre delle reazioni su chi fa il nostro lavoro. Non dico a livello di dare una notizia o di non darla. Ma puoi ritrovarti a chiederti se una parola, o un’immagine, verrà strumentalizzata sotto la lente dell’iniziativa. È questo il livello sottile di un autocensura che può scattare”.
Un altro, invece, con cui vado a fumare una sigaretta, ha tutt’altro approccio: “Io tendo a sdrammatizzare, anche con i colleghi. Il 4 marzo tanto arriverà lo stesso, inutile farsi schiacciare dall’ansia. E poi io sono ottimista: penso che alla fine sia in Svizzera che in Ticino l’iniziativa verrà bocciata”.
“Sarà un’illogica allegria, come cantava Gaber…”
Torno nell’ufficio di Herber e riprendiamo la chiacchiera. Gli sottopongo gli umori che ho raccolto in redazione: “Sai - mi ribatte - credo non sia mai capitato a nessuno che il proprio posto di lavoro fosse legato all’esito di un voto popolare. È chiaro che tra i colleghi c’è chi si sente bersagliato, chi vive male questa situazione e chi invece la sopporta meglio. Che ci sia il retro pensiero della No Billag è un po’ inevitabile. Per quel che mi riguarda non mi pesa tantissimo, sarà un illogica allegria come cantava Gaber. Noi dobbiamo continuare a fare il nostro lavoro come se fosse l’ultimo giorno. Con lo stesso impegno, lo stesso scrupolo, la stessa passione. Anche perché se il 4 marzo perdiamo, che si fa? Non andiamo in onda? No, se dovesse mai accadere dovremo lavorare ancora meglio quel giorno lì. E anche il 5, il 6, il 7… Ecco, forse non garantisco sulla retrospettiva di fine anno. Può essere che verrà un po’ malinconica…”.
Il pranzo e il colpo di tacco di Romelli
Pranzo veloce: una pizza e via. Insomma non proprio le “vacanze di mezzogiorno” con cui Attilio Bignasca descriveva, attraverso una battuta antologica, le pause di mezzodì dei dipendenti che lavorano nel pubblico. Ai tempi in cui il Conte Zio sedeva in Gran Consiglio e io e Max battevamo i corridoio di Palazzo delle Orsoline da semplici cronisti della politica cantonale.
Alle 14.30 mini briefing in redazione, con Romelli che fa il punto sulla scaletta. La racconta come se la stesse presentando davanti a una telecamera. E la scena, piena di talento, fa il suo effetto: un po’ come un colpo di tacco a inizio secondo tempo che riaccende la partita.
Nel frattempo cominciano i montaggi dei servizi. La maggior parte dei giornalisti fa da solo, cioè realizza in proprio il suo “pezzo” dalla a alla z. E questo smentisce un certa leggenda sul fatto che i giornalisti della RSI non siano poliglotti nell’utilizzare tutti i linguaggi (e gli strumenti) del mestiere.
“Il problema non è destra o sinistra ma la superficialità”
Chiedo a Herber perché lui non si sia esposto sui social come altri suoi colleghi: “Perché per indole, sia professionale che verso i social, penso che la prima risposta non dobbiamo darla su Facebook ma attraverso il nostro lavoro. Ma comprendo lo stato d’animo dei colleghi che invece si muovono sui social, si difende il proprio posto di lavoro, no?”.
Lui non lo conferma né lo smentisce, ma ve lo dico io che lo conosco: non è un uomo di sinistra. E perciò gli domando che effetto gli fa quando l’informazione della RSI, di cui la sua redazione è un fulcro, viene dipinta come un covo di rossi. “Dipende. All’inizio mi arrabbiavo moltissimo. Adesso sorrido, il più delle volte. In realtà il nocciolo del discorso non è destra o sinistra. Il vero problema è la superficialità con cui ogni tanto ci capita di muoverci. Più per imboccare delle scorciatoie che per delle reali malizie. La stragrande maggioranza degli errori non li facciamo perché mossi dall’ideologia, ma perché sbagliamo a fare delle scelte. Spesso a causa della fretta… quando magari al posto di fare quattro telefonate ne facciamo solo due. Purtroppo, come accade in tutti gli ambiti della vita, non sempre le cose vanno come devono andare. Però poi vaglielo a spiegare a chi ci critica che abbiamo sbagliato in buonafede, per una disattenzione, e non perché volevamo arrecare un danno intenzionale… spesso purtroppo non veniamo creduti a causa di un pregiudizio di fondo. E poi non ci sono solo gli errori, dai, qualcosa di buono lo facciamo, no?”.
Una redazione, nient’altro che una redazione
La giornata galoppa e torno in redazione. La scaletta si affina, la maggior parte dei servizi cominciano ad essere confezionati, fioccano i lanci. Che alle 18.15 è prevista la prova dell’edizione, in studio. “Certo - ammette un collega che come me ha dei trascorsi professionali a Teleticino - qui in media ogni giornalista fa un servizio al giorno (oggi anche il capo edizione, ndr.). A Melide si corre di più. Ma come vedi neanche qui nessuno sta con le mani in mano”. Lo confermo. E a questo punto dirò la cosa più banale del mondo: quella del Quotidiano è una redazione, nient’altro che una redazione. Certo, molto meglio attrezzata rispetto a quelle che ho frequentato io, ma con le stesse pause, gli stessi momenti di concentrazione e di ilarità, le stesse tensioni…man mano che si avvicina la diretta. Se permettete, quando occorre, con le stesse palle e le stesse ovaie di ferro, come direbbe il mio amico Ducry per non far torto al coraggio e alla determinazione dell’universo femminile.
Prima di tornare da Herber per chiudere l’intervista, passo da Romelli, il quale, dopo aver titolato la copertina, guarda i servizi che andranno in onda. Un ultimo visto, metti che sia sfuggita un’immagine stonata o una frase così e così… Servono 30 secondi in più per starci dentro con tutto stasera (40 minuti di produzione, come ogni giorno. E non è poco…). Concessi. E quando lascio la redazione, abbondantemente dopo le 18.00, il servizio che verrà lanciato per secondo è ancora in fase di realizzazione: la notizia è arrivata tardi…
“Non siamo uno yogurt con la data di scadenza. Siamo persone”
Complice la stanchezza della giornata, capisco che è il momento giusto per incalzare Herber sul lato emotivo. Per spremergli un po’ di sentimento da quel suo carattere, e quel suo ruolo, corazzati di pudore e austerità, per celare le emozioni personali.
Sulle prime si mette sulla difensiva propinandomi la premessa dovuta (il suo pippone, tiè…): “Le nostre giornate non sono scandite dal pensiero della No Billag o da cosa succederà dopo il 5 marzo. Oggi la tua presenza ha ovviamente stimolato la discussione, ma in generale non abbiamo questo chiodo fisso. Ci sono dei momenti in cui ne parliamo in gruppo, momenti in cui sento il dovere di contestualizzare le varie notizie, dove cerchiamo di capire cosa sta succedendo… ma poi andiamo sempre avanti per la nostra strada”.
Torno alla carica pesantemente, e stavolta il responsabile del Quot. un po’ concede: “Andrea, è evidente che non è facile, lo sai anche tu. Non siamo un yogurt con la data di scadenza scritta sulla fronte. Siamo persone. C’è di mezzo il nostro lavoro, le nostre famiglie, la nostra quotidianità…”
“Se ci penso non ci dormo la notte”
Per Herber sono 16 anni nella redazione del Quotidiano, di cui quasi 7 da timoniere. Un pezzo di vita. Se ti fermi a pensare che tutto questo, dopo il 5 marzo potrebbe non esserci più, cosa provi? “Se dovessi fermarmi a pensare che, a causa anche dei miei errori, la gente potrebbe decidere di far chiudere la RSI, non ci dormirei la notte. Soprattutto pensando ai colleghi che rimarrebbero a casa. E il pensiero, lo confesso, talvolta mi sfiora, ma cerco di tradurlo in sprone. Mi chiedo cosa possiamo fare di più e meglio. Altrimenti il rischio è la paralisi, la paura. È chiaro che il timore c’è. L’idea spaventa. Ma io voglio continuare a pensare al dopo 5 di marzo, alla prossima stagione, a cosa si può fare di bello per il pubblico della RSI”.
“Con tutto il cuore. Con tutto il cuore”
“La gente qui - prosegue il responsabile del Quotidiano - è attaccata al suo lavoro con tutto il cuore. Con tutto il cuore”, ripete. “C’è struggimento, non lo nego, ed è un sentimento ambivalente, che può trasformarsi talvolta in rabbia, talvolta in tristezza. Una sorta di disorientato smarrimento. Una sbornia triste. Se dovesse vincere il sì, probabilmente passeremo non so quanto tempo ad arrovellarci il cervello per chiederci cosa abbiamo sbagliato. Però questo non cancellerebbe mai 17 anni di soddisfazioni, di vita vissuta, di amicizie”.
“Un bagno di umiltà che non può farci che bene”
Gli chiedo se questa iniziativa abbia in qualche modo portato qualcosa di positivo, al netto dei sentimenti e delle preoccupazioni. “Ti do una risposta generale e una personale. Il fatto che questa iniziativa esprima un malcontento che esiste verso la RSI, deve essere uno stimolo per noi ad essere più popolari. Se la gente pensa che qui siamo in una Torre d’Avorio, vuol dire che noi gli abbiamo dato il pretesto per crederlo. Tu oggi hai visto che le nostre porte sono aperte, non è un’operazione di glasnost. Quindi questo dibattito è un bagno di umiltà che non può essere che positivo per noi. E senza nessun tipo di lesa maestà. Quanto alla risposta personale, ti dico che quando corri il rischio che qualcosa ti venga portato via, ne capisci meglio il valore. Da un lato sei più grato rispetto a quello che hai e dall’altro sei ancora più attaccato al tuo lavoro. E lo vuoi fare bene. Con orgoglio e passione”.
“I “No,ma” e gli unici elementi che mi infastidiscono”
Ho un’ultima domanda prima di congedarmi. Gli chiedo dei “No, ma”, quelli che dichiarano di opporsi all’iniziativa (“no”) ma all’indicazione di voto ci attaccano una serie di critiche (“ma”). E i rimproveri sono spesso e sovrapponibili a quelle del fronte del “sì”. E allora: anche Herber avverte il pericolo che nella testa degli elettori resti impresso solo il “ma” e vada dispero il “no”? “Simpaticissimi i “No, ma”, eh! Ma è chiaro che quando li ascolti ti viene il sospetto che quell’appoggio sottintenda una richiesta, uno scambio. Ma sulla scheda c’è scritto “sì” o “no”. Se si scrive “ma” il voto è nullo. Questo messaggio rappresenta indubbiamente un pericolo perché alimenta dubbi negli elettori. E ancora peggio quando leggo o sento “se vince l’iniziativa la RSI comunque non chiude”, “in Ticino votiamo sì per mandare un messaggio all’azienda, tanto a livello nazionale non passa”, “c’è il piano b”. Eccetera…. Questi sono davvero gli unici elementi del dibattito che mi infastidiscono perché non si fondano sulla realtà, essendo chiarissimo il testo dell’iniziativa: chi dice queste cose l’ha letto o no?!”.
Una chiosa ironica
Hai un pensiero finale per le persone che ci stanno leggendo? “Ma nooo, niente messaggi urbi et orbi, sono solo un cronista. Anzi no…da collega a collega: hai in mente quella famosa battuta “fare il giornalista è sempre meglio che lavorare” ? Solo una chiosa ironica… peccato ci sia chi la prenda troppo sul serio e la usi come alibi”.
E intanto il Quotidiano è andato in onda anche stasera…