Un favore agli interessi dei partiti - e ad alcuni loro mammasantissima, che più che un culo di pietra hanno ormai un deretano fossilizzato - e un danno per le nostre istituzioni
di Andrea Leoni
Sedici anni sono lunghi: rappresentano quasi un quarto dell’aspettativa di vita media di un essere umano. Sono gli anni, ad esempio, che separano la nascita dall’ingresso al liceo o dal primo giorno di apprendistato. Pensateci: sono un mucchio di tempo.
Ma se sedici anni sono lunghi nella quotidianità della vita reale, non lo sono nella politica ticinese. O almeno: non si ritengono un tempo sufficiente per cedere la cadrega al successore. Talvolta è stupefacente osservare come gli eletti si avvitino nell’incapacità di staccarsi dal potere e dai piccoli troni, soprattutto locali, a cui taluni sono abbarbicati da decenni.
Il Gran Consiglio ieri ha bocciato - dopo averla approvata in prima lettura - un’iniziativa del defunto deputato leghista Angelo Paparelli, che proponeva di fissare a quattro legislature il limite massimo di durata di una carica, sia a livello cantonale che comunale. Sedici anni, appunto. Una proposta di buon senso che, semplicemente, garantiva alle nostre istituzioni di ossigenarsi facendo capo a quella bombola di cui ogni democrazia ha bisogno per funzionare bene: il ricambio.
Invece la maggioranza del Parlamento ha preferito arroccarsi, come una vera e propria casta, sulla difesa dello status quo, che non pone alcun limite. Un favore agli interessi dei partiti - e ad alcuni loro mammasantissima, che più che un culo di pietra hanno ormai un deretano fossilizzato - e un danno per le nostre istituzioni.
Ai meritori interventi di Boris Bignasca e di Carlo Lepori che hanno difeso l’iniziativa Paparelli - e dei loro colleghi che li hanno sostenuti con il voto - sono seguiti i soliti discorsi triti e ritriti di chi, pur di difendere il privilegio di ministri, sindaci e deputati a vita, utilizza argomenti stravaganti. La libertà di scelta degli elettori, la politica di milizia, la mancanza di personale politico, l’inutilità della regola, addirittura. Tutte scuse, le solite scuse.
Se alcuni eletti non comprendono da soli la necessità di sloggiare dopo aver poggiato le terga 16 anni sulla stessa poltrona, ebbene, occorre che sia una regola a imporglielo. Il fatto che i casi siano pochi, non è una giustificazione per non intervenire. Semmai è il contrario: si tratta di sanare la stortura di una minoranza che si comporta come le cozze. Se in un comune non si trovano persone per ricoprire le cariche pubbliche, significa che quel borgo non regge più istituzionalmente, e allora occorre procedere a una fusione. Altrimenti non è più un comune ma un feudo.
Anche l’argomento della politica di milizia fa acqua da tutte le parti. Lo spirito di questa forma nobile di impegno, poggia proprio sull’idea di svolgere un servizio per il Paese. E questa idea, quando è davvero pura e disinteressata, ha nella sua stessa ispirazione il principio di svolgere il proprio compito in prima linea per un tempo, per poi passare la mano con gioia e soddisfazione, restando disponibili ma nelle retrovie e solo se richiesto.
Sono proprio i brontosauri della politica a disincentivare le giovani generazioni a partecipare alla vita pubblica. Un egoismo che in Ticino ha bruciato generazioni di buoni politici, le cui potenzialità sono rimaste sulla carta.
La libertà di scelta degli elettori, infine, è un’ipocrisia gigantesca. Tutti sanno che chi detiene lo scettro del potere per troppo tempo, instaura una corte e una rete di conservazione che diventano pressoché impenetrabili. Un tappo democratico che, questo sì, impedisce una sana competizione elettorale e una gestione amministrativa della cosa pubblica che non sia accucciata al potere politico.
È proprio così che nascono le caste.