Il RACCONTO - A una settimana dall'inizio della rassegna iridata ecco la storia della partita da cui nacque il Mito del calcio. Una partita che si giocò 64 anni fa allo stadio Maracanà dove il 13 luglio si tornerà a disputare la finale dei Mondiali
di Andrea Leoni
Maspoli, M.Gonzáles, Tejera, Gambetta, Varela, Andrade, Ghiggia, Peréz, Miguez, Schiaffino, Morán. Se vuoi cominciare a studiare calcio devi cominciare da questi nomi. Dalla formazione più importante di tutta la Storia del pallone. Non la squadra più forte, neppure quella più spettacolare, ma di certo la più leggendaria. Quella che ha costruito il Mito. Che ha dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che esistono tanti e tanti sport. E poi c'è il calcio. Non solo un'attività sportiva, qualcosa di più di un gioco. Dunque, le regole certo, la passione, il talento, il fisico. Ma anche la provocazione, il bluff, la furbizia, la scorrettezza, l'imbroglio. La magia e il sudore. L'emozione e la gomitata. L'incomprensibile imprevedibilità di una partita e del suo risultato che forgia la similitudine banale e perfetta con la vita. E nella quale chi vive e segue le vicende del pallone si rispecchia. Il germoglio del calcio come fenomeno sociale e culturale
Maspoli, M.Gonzáles, Tejera, Gambetta, Varela, Andrade, Ghiggia, Peréz, Miguez, Schiaffino, Morán. Nomi di un calcio tribale. Che nessuno se le ricorda più. A guardare le fotografie di allora, ridipinte dal bianco e nero, sembrano bersaglieri orgogliosi, eroi dimenticati perché soldati di trincea. Ma tutto nasce da questi giocatori. La speranza che qualche volta, poche volte, può vincere il più debole e il più povero, l'hanno inventata loro. Ed è su questo sentimento, quasi illusorio ma reale, che si fonda il calcio. È il motivo per cui quando la tua squadra incontro una squadra più forte, in qualche remoto angolo dell'inconscio, pulsa quella speranza folle e inconfessabile di poter vincere. Non accade mai ma può accadere: il paradosso genetico e ancestrale del gioco del pallone.
Tutto questo nasce nel pomeriggio del 16 luglio 1950 allo stadio Maracanà di Rio de Janeiro. Quel giorno si realizza, anche se nessuno lo può neanche immaginare, la madre di tutte le partite. Vittoria e sconfitta si mescolano in un'unica notizia e creano quel misterioso cortocircuito che è l'anima del calcio. Davanti a 200'000 brasiliani accalcati sugli spalti e molti, molti di più, fuori, l'Uruguay alza al cielo la coppa Rimet e diventa campione del Mondo battendo i padroni di casa. E allora che titolo fai? L'Uruguay vince il Mondiale? Il Brasile perde il Mondiale? In entrambi i titoli manca un pezzo della storia. L'Uruguay fa piangere il Brasile? No, manca sempre qualcosa. Meglio arrendersi. Non si può fare un titolo di cronaca su un avvenimento del genere.
Questa partita giocata 64 anni fa è stata raccontata un miliardo di volte. L'hanno narrata scrittori, poeti, giornalisti. L'abbiamo vista nei documentari alla televisione, l'abbiamo letta nei libri. Oggi sui internet si trovano decine di articoli dedicati a quella partiti. Molti padri l'hanno raccontata ai figli. E i figli ai loro figli. È quasi un racconto biblico, o per non essere blasfemi, una favola. E come ogni racconto tramandato quel che accade si mescola, talvolta sapientemente talvolta meno, alla fantasia e diventa leggenda. Come le gesta del capitano della Celeste Obdulio Varela, "El Jefe", il capo. Morto povero, alcolizzato e triste, come il più romantico degli eroi.
"Quelli là fuori non esistono". Varela lo disse ai compagni varcando il terreno di gioco. Una frase stampata nella storia sudamericana, non solo calcistica. Quelli là, naturalmente, erano i 200'000 brasiliani sugli spalti. Una folla insostenibile per gli occhi e le gambe dei giocatori uruguayani. Non subito, non all'inizio almeno. La leggenda narra che "El Jefe" nello spogliatoio prima della partita abbia fatto pisciare i compagni sulla prima pagina di un giornale carioca. E poi delle entrate intimidatorie, per non dire assassine, di Gambetta per spezzare il samba dei brasiliani. In molti, nel corso degli anni, hanno chiesto ai protagonisti di quel match: ma è vero questo o quel episodio, che quello ha detto così a quell'altro, e che poi a un certo punto....ed ecco che il mosaico di quel racconto epico si arricchiva di nuove tessere anno dopo. Vere, verosimili o inventete, che importa?
Ma il Brasile va in vantaggio. I dirigenti dell'Uruguay alla vigilia avrebbero firmato per perdere 3-0. Le ambizioni dei brasiliani partivano dai 4 gol in su. Solo Varela ci credeva davvero, che lui e i suoi sarebbero stati i campioni. E proprio nel momento più buio, sotto di un gol, al Maracanà, avviene la svolta.
Racconta il capitano della Celeste in una meravigliosa conversazione con Osvaldo Soriano: "Presi il pallone dalla rete e camminai lentamente verso il centro del campo. Ci misi più di due minuti, sempre tenendo in mano il pallone, con i brasiliani che mi urlavano di tutto e volevano che facessi in fretta a ricominciare il gioco perché volevano seppellirci di gol. Quando arrivai a centrocampo protestai con l'arbitro per un presunto fuorigioco, chiamai un interprete per parlare con il direttore di gara che naturalmente convalidò la rete di Friaca, ma io intanto avevo guadagnato un altro po' di tempo, il furore dei brasiliani si era placato e in quell'istante capii che avremmo potuto vincere".
Pareggia Schiaffino. Pepe, quello del Milan e "della genialità dell'uomo venuto da lontano" nella canzone di Paolo Conte. E poi, al minuto 79', il lampo di Alcides Ghiggia, la scheggia. E il Maracanazo è servito. Già, Maracanazo, un neologismo coniato per descrivere quella vittoria, e quella sconfitta, contro ogni pronostico. "Solo tre persone sono riuscite a zittire il Maracana: Frank Sinatra, Papa Giovanni Paolo II e io", sintetizzò beffardo Ghiggia. E proprio qui c'è un altro intreccio magico di questa Storia. Nelle vene del giocatore che ha deciso la madre di tutte le partite scorre sangue ticinese. E anche l'albero genelogico del portiere di quella Celeste, Maspoli, aveva radici in Ticino. Se ne trova traccia persino sul sito del Cantone: "Tra le altre nazioni del continente sudamericano più apprezzate dai nostri emigranti - si legge - è impossibile non citare l'Uruguay. Molti personaggi celebri di questo Stato (tra cui i calciatori della Celeste Alcides Edgardo Ghiggia e Roque Gastón Maspoli) avevano sangue ticinese".
E dopo il fischio finale? Il Brasile cadde in un vero e proprio lutto nazionale. Un lutto nel vero senso della parola, accompagnato da disperazione e da suicidi di massa. Almeno una trentina, narrano le cronache di allora. Un lutto che dura ancora oggi. Il 13 luglio 2014 si tornerà a giocare una finale di un Mondiale al Maracanà di Rio de Janeiro. E per i brasiliani è l'occasione imperdibile di cancellare il "Maracanazo", per l'Uruguay...no, non c'è bisogno di seminare retorica a buon mercato.
Nella notte dopo la finale Varela e il massaggiatore dell'Uruguay si avventurarono per le strade di Rio. "Il proprietario di un bar - racconterà il capitano molti anni dopo - si avvicinò insieme a un tizio grande e grosso che piangeva. Gli disse: 'Lo sa chi è questo qui? È Obdulio'. In quel momento ho pensato che il tizio mi avrebbe ammazzato. Ma mi guardò, mi abbracciò e continuò a piangere. Subito dopo mi disse: 'Obdulio, accetta di venire a bere un bicchiere con noi? Vogliamo dimenticare, capisce?' Come potevo dirgli di no? Abbiamo passato tutta la notte a sbevazzare da un bar all'altro".
Maspoli, M.Gonzáles, Tejera, Gambetta, Varela, Andrade, Ghiggia, Peréz, Miguez, Schiaffino, Morán...