Lo straordinario pastore, le fragilità dell'uomo di Governo. Il Papa degli ultimi e il gesuita regnante. Un ritratto analitico del pontificato di Bergoglio
di Andrea Leoni
Temo che nelle ultime ore si sia fatto un utilizzo commerciale dell’aggettivo “rivoluzionario” per descrivere il papato di Francesco. Una scorciatoia semantica che per finire ci restituisce un ritratto un po’ consumista del Papa defunto. E in effetti è molto più accattivante e rassicurante l’immagine di un Jorge Bergoglio rivoltoso - meglio ancora se tratteggiato con gli accenti del sudamericano progressista - anziché quella di un Pontefice espressione autentica della religione cattolica e della sua catechesi. Per molti è certamente meno compromettente, soprattutto per i non credenti, come chi scrive, attribuire al Papa argentino anziché al Vangelo l’origine del messaggio rivoluzionario. Modificare questa prospettiva porrebbe portare a porsi alcune domande disturbanti. Ma questo ha fatto Francesco: riportare la Chiesa all’essenza radicale dell'annuncio evangelico, praticandolo con la parola, con i gesti e con i comportamenti. Solo sotto questa angolatura l’aggettivo “rivoluzionario” non appare come un orpello kitsch.
Il Papa pastore e capo di Governo
Un’analisi onesta del pontificato di Bergoglio, ci impone di scindere la figura del pastore da quella del Papa, quella del vescovo da quella dell’uomo di Governo. Le valutazioni sulle due figure sono molto diverse. “Siate pastori con l’odore del gregge”, disse ai sacerdoti all’inizio del suo ministero petrino. E questa è la frase che sintetizzata la parte migliore del suo pontificato, quella evangelica. La straordinaria capacità di connettersi con le persone, credenti e no, disintegrando le barriere, accogliendo chiunque, a cominciare dai gigli scartati della società. Una sorta di premessa “deandreiana”: prima di tutto figli di Dio, poi il resto. Un messaggio inclusivo dirompente che ha creato non pochi cortocircuiti, come vedremo, quando da Dio si è passati alla Chiesa. E la sua simbolica uscita di scena è stato l’apogeo di questa comunione tra lui e il popolo e di questa tensione spirituale, intercessa da lui, tra il popolo e il cielo. Una sorta di dolce Passione. Quasi che il Papa, consapevole delle sue condizioni di salute, cercasse l’appuntamento con la morte nella volontà di voler risparmiare alla Chiesa un secondo pontefice dimissionario. Un commiato che, come un presagio, era stato anticipato dall’immagine di Francesco con il poncho in San Pietro, già spogliato dagli abiti papali.
Si diceva dei cortocircuiti, un tema che introduce l’altra faccia della medaglia del papato bergogliano, quella dell’uomo di Governo. Francesco il Papa che ha accolto i transessuali in Vaticano, che ha detto “chi sono io per giudicare i gay”, ma che a livello dottrinale, dunque di sostanza, si è mosso in assoluta continuità con i predecessori, modificando poco o nulla. È il Papa che, in particolare all’inizio del pontificato, ha esaltato i non credenti progressisti, perché diceva ciò che volevano sentirsi dire dal capo della Chiesa (chissà poi perché, essendo non credenti…). Ma Francesco è stato anche l’implacabile oppositore dell’ideologia gender, che oggi chiamiamo woke, il vescovo di Roma preoccupato per la “troppa frociaggine” nei seminari, il leader religioso che chiamava “sicari” i medici che praticano l’aborto. Nel contrasto al cancro della pedofilia, ha raccolto l’eredità del predecessore, forse addirittura con meno intransigenza, incorrendo peraltro in qualche pesante scivolone. Tra il messaggio inclusivo e gli atti governativi di Bergoglio emerge dunque un’asimmetria che in alcuni casi accarezza il populismo.
Il Papa regnante
È probabile che Papa Francesco avrebbe voluto riformare alcuni aspetti della Chiesa con maggiore incisività, ma il rischio di irrimediabili spaccature interne lo ha fatto desistere. Nel valutare l’uomo di Governo non si può non partire dall’anomalia dei due Papi. Per un decennio il pontificato di Bergoglio ha dovuto convivere con la presenza di Benedetto XVI. Una coabitazione che nonostante i ripetuti atti di obbedienza di Ratzinger, e lo sforzo di entrambi i protagonisti proteso alla concordia e all’unità della Chiesa, ha sgrammaticato molte dinamiche interne, creando fazioni e, tra le tifoserie, speculazioni, incomprensioni, veleni, vendette. Francesco è stato attaccato dall’interno della Chiesa con una virulenza, e talvolta con una sfacciataggine, senza precedenti nell’era moderna del papato.
A questo primo fattore decisivo ne va aggiunto un altro: il carattere di Bergoglio, il classico gesuita che è meglio non avere come nemico. Un Papa che era stato eletto con la prospettiva di una maggiore condivisione e collegialità nel processo decisionale, si è invece contraddistinto per la sua conduzione da vero regnante, con accenti d’impulsività dittatoriali e provvedimenti non di rado spietati verso i sottoposti. Era un accentratore che non amava il dissenso, la disobbedienza, e forse anche per questo si è spesso circondato di yes man che non hanno certo favorito un’azione di Governo feconda, confinando talvolta il pontificato nei perimetri dei cerchi magici che, di volta in volta, mutavano, allargandosi o restringedosi. Il bilancio di capo di Governo risulta dunque abbastanza modesto, rispetto alla beatitudine dell’azione pastorale.
Verso il Conclave
Un capitolo a parte, nell’ambito della valutazione del capo di Stato, lo merita la politica estera. Con una semplificazione giornalistica si potrebbe definirlo provocatoriamente il Papa dei Brics. Da buon latinoamericano Francesco è sempre stato di indole anti yankee e piuttosto freddo, per usare un eufemismo, verso l’Europa. Il messaggio urticante del Vangelo (per i poveri, per i migranti, contro la guerra, contro il riarmo, sull’Ucraina come a Gaza) è stato un costante dito nella piaga dell’ipocrisia occidentale, alimentando il nostro senso di colpa che, per eredità di cultura cattolica, è più sviluppato rispetto ad altri popoli. Per carità, non sono mancati colpi sferzanti anche verso autorità non occidentali, come quando disse al patriarca di Mosca Kyrill di non fare il chierichetto di Putin, ma in generale vi è stata un’indulgenza verso i potenti del sud del Mondo. La sua freddezza verso l’Occidente si è tradotta anche con le nomine cardinalizie. Vi sono vaste comunità cattoliche senza un cardinale: Milano, Parigi, Los Angeles…ma l’internazionalizzazione della Chiesa è stato l’altro elemento decisivo del pontificato di Francesco e il Conclave, con l’80% dei cardinali creati da Bergoglio, ne è la rappresentazione. Un processo tanto ineludibile quanto irreversibile per la prosperità della Chiesa.
Per paradosso, tuttavia, il successore di Francesco potrebbe non venire, ancora una volta, dalla fine del Mondo. Senza volersi addentrare in pronostici, limitiamoci a qualche considerazione generale sulla carta. Parlare di un Conclave a trazione bergogliana, in senso ideologico, è una semplificazione, ma possiamo supporre che il successore di Francesco non sarà in aperta discontinuità con il Papa defunto. Non dovrebbe trattarsi di un’elezione lampo, sia per l’alto numero di Cardinali sia per una scarsa conoscenza reciproca tra i numerosi nuovi Principi della Chiesa. La presidenza Trump, con tutto ciò che ne comporta, avrà un peso nella scelta. Le divisioni nel clero statutinetense così come l’ultra conservatorismo espresso dall’Africa, paiono suggerire che la scelta cadrà su un Continente diverso. L’Europa esprime candidature autorevoli, con in testa il trio italiano: Parolin, Zuppi e Pizzaballa, con quest’ultimo, patriarca di Gerusalemme, che appare un profilo mediano perfetto tra i primi due. E un Papa dall’Asia per il secolo asiatico? Al momento l'unico candidato forte è l'ex arcivescovo di Manila, ora in Curia, Tagle, ma è ancora presto. I prossimi giorni chiariranno.