Il grande Franco torna a indossare i panni del professore e - come regalo natalizio per i lettori di Liberatv - snocciola una lezione da antologia (e dal futuro!)
LUGANO - Sotto sotto, ci speravo che nella casella della posta elettronica - prima o poi - comparisse un'e-mail da Franco Lazzarotto. Un'e-mail con un "pezzo" dei suoi, come regalo di Natale per i lettori di Liberatv. Non ho osato chiederglielo, perché lo conosco: lui scrive per ispirazione, quando e come gli pare. Poi, ieri, domenica, ecco comparire il mittente: Franco Lazzarotto. E allora, come un bambino, sono corso a scartare il dono natalizio, in allegato World. Eccolo. Gustiamocelo insieme! (AELLE)
di Franco Lazzarotto*
Buongiorno, ragazzi.
Oggi, ultima lezione prima delle meritate vacanze natalizie. Ho quindi pensato, quale speciale e particolare “regalo”, di proporvi un balzo all’indietro di mezzo secolo e di descrivervi quello che fu il mio primo Natale, segnato da una globale pandemia che fece purtroppo allora milioni di morti. Della sua vera origine, ancora oggi se ne sta discutendo non sapendo se comodamente incolpare il mondo animale o certo sciagurato mondo dei saggi umani. Non guardatemi male, sono sopravvissuto alla pandemia, sì, ma non per merito mio. Semplicemente il virus, allora denominato Covid-19, non colpiva i più piccoli.
Nacqui ad ottobre di quell’ “annus horribilis”, mamma dovette entrare da sola nel reparto maternità, papà e i nonni mi videro per la prima volta dalla finestra senza potermi abbracciare, fui battezzato - “nomen omen”, Salvo - due anni dopo a pandemia conclusa. Senza nonni… Ebbene, cari ragazzi, pensate che durante tutti quegli interminabili mesi si era obbligati, quando vi era possibilità d’uscita da casa, a portare una certo vitale ma scomodissima mascherina crea-ansie e taglia-orecchie, non si poteva salutare o abbracciare qualcuno se non goffamente incrociando i rispettivi gomiti, il lavaggio delle mani era rito che mamma imponeva almeno dieci volte al giorno fino a sfibramento dermatico e l’entrata nei vari empori era regolata da semafori, sorveglianti o percorsi obbligati tipo Disney World.
Nei bar dovevi forzatamente sederti anche per consumare un ristretto che ingurgitavi in due minuti, ma te ne occorrevano il doppio per completare il foglietto della sanitaria tracciabilità. Il pomeriggio era poi scandito dalle innumerevoli conferenze stampa in diretta televisiva che, una volta da Bellinzona e una volta da Berna, sistematicamente contraddicendosi, si susseguivano e dalle quali scaturivano decisioni e direttive di irritante fumosità imitanti i Dpcm delle vicina e allora colorata Repubblica.
Difficile quindi per radio, tv e giornali, esisteva ancora la carta stampata, districarsi fra autorità, medici, virologi, psichiatri, politici e quelli che il saggio nonno chiamava “cünta ball”, fra centinaia di grafici e dati pandemici prevedenti lockdown, picchi, discese e ondate. Marea di parole in stagnante e disorientante incertezza. Chi osava parlare fuori dai…denti o letargava i vecchietti era subito zittito, chi studiava colpi…gobbi era poco seguito e a chi raccontava scientifiche verità gli si consigliava una…garzona sulla bocca. Il verbo “ungere” - allora parecchio declinato nel Cantone unitamente al conseguente sostantivo - depennato dal dizionario. Avevano pure fatto in quegli anni capolino i primi “portali” facenti a gara nell’avere l’esclusiva delle news. Ma le stesse erano poi commentate da centinaia di anonimi lettori con interventi dove spesso l’italiano era un optional e l’insulto un must. Tutto il quotidiano era quindi penosamente stravolto.
Noi comunque ci sentivamo, da veri svizzeri, più sicuri degli altri. Non facevamo ancora parte dell’UE e quindi, soprattutto quando mostravano la cartina dell’Europa e vedevi quella macchiolina rossa centrale attorno al verde del resto, ne eri in fondo un po’ orgoglioso. Orgoglio che spesso però s’azzerava facendo apparire sulla fronte dei disorientati cittadini una sempre più evidente somma ruga derivante dall’aver ascoltato le già citate conferenze stampa con relative decisioni (non) prese a classica velocità bernese. Vi ricordo, ragazzi, che erano allora sempre attivi i posti di frontiera e per andare a Como per spesa o a Milano per cultura dovevi addirittura autocertificarti o, neologismo del tempo, tamponarti. Il tunnel del San Gottardo era ancora a un solo tubo con spesso ai portali un’interminabile coda di ammorbanti autoarticolati tutti ancora a benzina. Alptransit era invece fresca di pomposa inaugurazione ad oceanica partecipazione mentre la galleria ferroviaria del Ceneri fu ufficialmente aperta nella Sonnenstube in dicembrina domenica del 2020 con mio papà munito di mascherina ffp2 ad assistervi in solitaria. In ambito culturale si vissero momenti inverosimili e incancellabili: potevi gustarti una pièce, un concerto o un film con presenti in sala massimo cinque, dico cinque, spettatori. Della serie…il primo tempo in platea e il secondo in galleria.
In ambito scolastico, la pandemia obbligava allievi e docenti ad alternare periodi di lezione ”in presenza” ad altri in cui le lezioni si tenevano “a distanza” ovvero usando le allora nuovissime tecnologie, perfettamente gestite dagli allievi, un po’ meno dai docenti. Le scuole, con peana dei medici, sono comunque rimaste chiuse solo per brevissimi periodi e questo anche perché all’allora ministro dell’educazione nemmeno usando il Bertolli, premiato olio di quei tempi, ti riusciva di allentarne i direttivi bulloni.
Due paroline ora sullo sport: cinquant’anni fa si costruiva ad Ambrì la nuova Valascia mentre a Lugano si progettava il centro sportivo, poi inaugurato nel 2032, ma con la squadra di calcio purtroppo già relegata d’ufficio. Si giocava a piste e stadi vuoti - le cronache scrivevano, spettatori: 0 - e così si sentivano distintamente le urla d’incitamento degli allenatori e il rosario di “lodi” all’arbitro dei panchinari. In ambito privato potevi pranzare o festeggiare solo coi parenti…stretti, ma ci si doveva rigorosamente sedere…larghi. Nell’ambito della ristorazione, dopo un “walzer delle aperture” da far impallidire Strauss, fu deciso di chiudere bar e ristoranti per l’intero periodo natalizio trasformandolo de facto in quaresimale.
Così, fra serrande abbassate, sedie e tavolini accatastati con morale di esercenti e clienti sotto scivolanti suole, capitava sempre più spesso - dice la cronaca del tempo - d’incontrare persone sconsolate e disorientate con la mascherina sotto il naso, sotto il mento o appesa ad un solo orecchio che fissavano l’inaspettato compagno di vuoto marciapiede sussurrandogli timidamente un liberatorio: “a sa ‘n po pü”!
Anche questa è storia, ragazzi, storia nostra che, anche a cinquant’anni di distanza, ha lasciato il segno in tante, troppe famiglie. Ma, da docente di storia, so purtroppo anche che troppo spesso la stessa poco o nulla all’uomo insegna.
Pensateci quando in totale libertà, in piena salute e in doppiamente santa pace festeggerete in famiglia e senza limitazioni l’ormai prossimo Natale 2070. Auguri, di cuore.
E’ suonato il gong, potete metter via.