“Ma la vera fame è atroce, istintiva, primordiale e Dio era testimone del lamento delle mie viscereâ€
LUGANO - Vi proponiamo la traduzione proposta da “Dagospia†di alcuni passi del nuovo libro di Roberto Canessa, un soppravvissuto all’incidente aereo che ha ispirato il film “Aliveâ€.      "I Had To Survive: How A Plane Crash In The Andes Inspired My Calling To Save Lives" ( Ho dovuto sopravvivere: come l'incidente aereo nelle Ande mi ha ispirato a salvare le vite) è edito dalla casa editrice Constable.
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- Il giorno di quell'incidente era un fatidico venerdì 13 ottobre 1972. Ero uno studente al secondo anno di medicina all'università di Montevideo, Uruguay.Â
La nostra squadra di rugby, composta dagli ex alunni del nostro liceo, aveva affittato un turboelica da 45 posti per trasportare noi, le nostre famiglie e i tifosi per una partita a Santiago del Cile.
L'umore a bordo era fantastico. Stavamo ridendo, scherzando e cantando come ragazzini ma le cose avevano preso improvvisamente una piega terrificante.Guardo fuori dal finestrino dell'aereo, e qualcosa non va. Eravamo sicuramente troppo bassi. Le punte delle ali erano solo a pochi metri dalle frastagliate cime innevate delle Ande. Che diamine stava facendo il pilota? Un attimo dopo ci fu un suono orrendo. Era un'ala che si staccava dopo aver colpito la cima della montagna. Subito dopo un botto devastante, il suono del metallo che si accartoccia e una caduta in picchiata.Â
In quel momento ho realizzato che stavo per morire. Chinando la testa, ho aspettato il colpo finale che mi avrebbe mandato all'altro mondo. Ma non è andata così.Â
Tutto intorno a me l'aria era piena di gemiti e grida dei feriti, satura dei miasmi del carburante. La fusoliera era aperta, lacerata su un lato, e la sua sezione di coda non c'era più.Â
Qualcuno dietro di me spostò il groviglio di sedili e metallo che mi schiacciava. Mi voltai e vidi il mio vecchio amico Gustavo Zerbino.
Molti avevano perso la vita. Altri erano stati orribilmente mutilati e feriti. Nella neve, ho pregato Dio affinché mi guidasse. L'istinto di darci da fare prese il sopravvento, e ci spinse a fare le prime mosse. Non c'era tempo per dubbi e domande. 'Questo è vivo... questo è morto'. Dodici tra passeggeri e membri dell'equipaggio erano rimasti uccisi al momento dell'impatto.Â
Il freddo era inimmaginabile. Dai 24 della cabina ci trovammo a 12 sotto zero. Abbiamo aperto i bagagli per prendere giacche e maglioni, e t-shirt da usare come bende.Â
Le mie mani erano coperte di sangue dei morti e dei moribondi. In seguito, distrutto, mi sono rannicchiato in un angolo e ho cercato di riposare. Pensando alla sfortuna di essere coinvolto in questo orrore inimmaginabile, ho chiuso gli occhi e, per la prima volta dopo l'incidente, controllato tutti i miei sensi. Quella prima notte sembrò durare per sempre. Mi sono svegliato pensando che fossi nel mezzo di un incubo, solo per scoprire che era tutto vero.
Ma nonostante il nostro dolore e lo shock, non ci siamo lasciati sopraffare. Pur non avendo alcun contatto radio o telefonico, eravamo convinti che i soccorsi sarebbero arrivati presto.
Abbiamo radunato tutto il cibo che c'era a bordo. Anche se era molto poco, abbiamo razionato in parti uguali, e condiviso i vestiti che erano nei bagagli.
Abbiamo formato un'enorme croce in mezzo alla neve con le valigie vuote, e con i piedi abbiamo tracciato un SOS che potesse essere visibile dal cielo. Eppure, non è apparso nessun aereo.Â
I soccorsi non sono arrivati  né quel giorno né quello dopo, né dopo ancora. Mentivamo a noi stessi: ''Non è un salvataggio facile'', ci dicevamo. Avranno bisogno di elicotteri. È solo una questione di tempo.Â
Delle 45 persone a bordo, 12 erano morte nello schianto e altre sei nei giorni successivi. Eravamo rimasti in 27, rannicchiati all'interno della cabina. Ma non eravamo più di questo mondo. Eravamo diventati creature di un altro pianeta.
Il nostro obiettivo comune era quello di sopravvivere ma quello che ci mancava era il cibo. Avevamo da tempo esaurito le magre provviste trovate a bordo, e non c'era vegetazione o animali intorno a noi. Dopo pochi giorni abbiamo cominciato a sentire che i nostri corpi stavano consumandosi da soli.Â
Sapevamo la risposta, ma il solo pensiero era tremendo.
I corpi dei nostri amici e compagni di squadra, preservati dalla neve e dal ghiaccio, contenevano vitali proteine che ci avrebbero permesso di sopravvivere. Ma come avremmo potuto farlo? Ho pregato Dio affinché mi guidasse. Senza il Suo consenso, mi sarei sentito di violare la memoria dei miei amici, che avrei rubato le loro anime. Ci chiedevamo se stavamo diventando pazzi anche solo a pensare una cosa del genere. Ci eravamo trasformati in selvaggi? O era questa l'unica cosa sensata da fare? In realtà , stavamo solo spingendo i limiti della nostra paura.
Ma la vera fame è atroce, istintiva, primordiale, e Dio era testimone del lamento delle mie viscere. Man mano che passavano i giorni, una risposta razionale emerse per calmare i miei timori e darmi una sorta di pace interiore.
Per me era un onore dire che se il mio cuore avesse smesso di battere, le mie braccia e le gambe e muscoli avrebbero potuto contribuire alla nostra missione comune, che era quella di tornare a casa, vivi.
E oggi che sono un medico, non posso che associare l'evento - usare un corpo morto per continuare a vivere - con qualcosa che sarebbe stato realizzato in tutto il mondo nei decenni successivi: il trapianto di organi e tessuti. Siamo stati noi a rompere il tabù. Ma il mondo lo avrebbe rotto insieme a noi negli anni a venire, e ciò che una volta era impensabile, è diventato un nuovo modo di onorare i morti. A poco a poco, ognuno di noi è arrivato alla medesima conclusione. E quando lo abbiamo fatto, è stato irreversibile. E' stato il nostro addio all'innocenza.
Non saremo mai più stati gli stessi.
Non dimenticherò mai la prima incisione, nove giorni dopo l'incidente, ogni uomo solo con la sua coscienza, lassù tra quelle montagne infinite, in una giornata più fredda e grigia di qualsiasi altra. Con una lametta o scheggia di vetro in mano, abbiamo tagliato via i vestiti a un corpo, senza neanche riuscire a guardarne il volto. Abbiamo steso le strisce sottili di carne congelata su un pezzo di lamiera. Ciascuno ha consumato il suo pezzo nel momento in cui se l'è sentita.
Il giorno dopo, il 23 ottobre, abbiamo sentito sulla nostra piccola radio a transistor che dopo più di 100 tentativi di trovarci, le ricerche erano state sospese.