SuperLeague: ecco perché non è stata una battaglia tra buoni e cattivi, tra ricchi e poveri, tra le vergini dei valori sportivi e le baldracche dell’immoralità
di Andrea Leoni
Buffoni. Ipocriti. Arroganti. Incompetenti. Dilettanti. Spaventapasseri. Avari. Ruffiani. Disperati. Se la vicenda della SuperLeague ha avuto un merito, è stato quello di mettere a nudo il degrado etico, professionale e finanziario che alberga ai piani alti del calcio europeo. Ora lo sanno tutti con chi abbiamo a che fare.
Quella consumatasi nelle ultime 72 ore non è stata una guerra tra buoni e cattivi, tra ricchi e poveri, tra le vergini dei valori sportivi e le baldracche dell’immoralità. Ogni aggettivo che avete letto potrebbe essere speso per molti dei protagonisti della vicenda, al di là della fazione d’appartenenza. Tutto il resto è propaganda che, come si usa al termine di ogni contesa, diventa storia per i vincitori.
I 12 club scissionisti, da tempo schiacciati da una voragine di buffi, che la pandemia ha reso mortali, avevano pensato di salvarsi con un’americanata: la creazione di un torneo chiuso con l’intrattenimento come scopo principale (e buonanotte al merito sportivo). Un’idea che aveva solide ragioni dal punto di vista finanziario e commerciale. Avrebbe senza dubbio garantito maggiore stabilità e prospettive a un sistema oggi al collasso. I 12 scissionisti si sarebbero ulteriormente arricchiti, blindando in modo definitivo la loro posizione di potere (altro che inclusione...), ma vantaggi maggiori degli attuali ne avrebbero avuti anche le medio-piccole, da un profilo economico e solo da quello. È spiacevole come considerazione ma senza le grandi, i loro denari e i loro milioni di tifosi nel mondo che rendono appetibili i diritti multimediali, l’intero sistema collasserebbe in un amen. Un dato soltanto: negli ultimi sette anni Juventus, Milan e Inter, attraverso le campagne acquisti, hanno iniettato nella Serie A un miliardo di Euro.
La SuperLeague avrebbe senz’altro migliorato anche la qualità del prodotto, innescando a cascata una riforma dei campionati. Le attuali competizioni europee non funzionano, tante partite e troppe di scarsa qualità. Difficile in questo modo sostenersi e competere su un mercato globale. L’UEFA incassa molto ma redistribuisce poco a chi genera questa ricchezza e, soprattutto, ne sopporta i costi più gravosi.
Ma gli indubbi benefici che la SuperLeague portava in dote valevano davvero il sacrificio del merito sportivo, il passaggio da una cultura europea a una americana? No. L’atomo che fa il calcio si basa sull’ipotesi (oggi direi più che altro un’illusione) che esiste una possibilità su un miliardo che a trionfare non sia il più ricco o il più potente. E che ogni squadra possa ambire ad entrare nell’olimpo, per capacità o per l’avvento di nuovi padroni. Se cancelli questa opzione, è come togliere il verbo essere dal pallone: salta tutta la grammatica.
Non è un caso che il progetto della SuperLeague sia autoimploso laddove il calcio è nato. C’è un solo organismo al mondo che può modificare le regole del gioco, imponendo il cambiamento a tutte le federazioni. È l’IFAB, istituito a Londra nel 1886. Sono solo 8 membri e la metà spettano di diritto alle federazioni britanniche. Gli inglesi sono i custodi del calcio e delle sue tradizioni. La Gran Bretagna è anche la patria della FA Cup, la più antica competizione calcistica, dove si sfidano dilettanti e professionisti. Un trofeo sacro, prestigioso e amatissimo dai tifosi di oltremanica. È per questo che l’Inghilterra è l’unico Paese tra quelli coinvolti nell’Armata Brancaleone, in cui la rivolta dei supporter ha avuto effettivamente un peso. Tanto che tutti i proprietari, uno dopo l’altro, dopo la ritirata, hanno dovuto cospargersi pubblicamente il capo di cenere. I regnanti costretti ad inginocchiarsi e ad abiurare davanti alla loro plebe.
È incredibile come i promotori della SuperLeague non abbiano considerato questo fattore. È stupefacente come, prima di partire, non abbiano pensato di sondare il Governo di Sua Maestà. Probabilmente c’è chi speculava sul risentimento europeo di Boris Johnson, credendo che la sua avversione verso l’UE potesse estendersi anche sull’UEFA. Ma BoJo è un premier conservatore, attaccassimo alle tradizioni e alla pancia del Paese, e l’idea che un gruppo di stranieri potesse danneggiare le secolari competizioni britanniche (tra l’altro le migliori e più redditizie del mondo), gli è subito sembrata un’eresia da scomunicare su due piedi. È stato lui a far saltare il banco. Libero dai vincoli europei ha minacciato i 6 club inglesi scissionisti di varare, in quattro e quattr'otto, leggi ad hoc in grado di annichilirli. E in poche ore tutti hanno calato le braghe, preferendo la vergogna all’osso del collo. Un sussulto di saggezza.
Ma tutto questo era prevedibile. Lo era la rivolta dei tifosi inglesi. Lo era la reazione negativa dei governi e dell’Unione Europea. Lo erano le minacce di ritorsioni Uefa e Fifa. Quindi, come diavolo è potuto accadere? Nelle ore precedenti alla debacle, con impassibile sicumera, il presidente del Real Madrid Florentino Perez garantiva sulla solidità dell’iniziativa e sui contratti vincolanti sottoscritti dai ribelli per non recedere. Tranquilli: nessuno si tirerâ indietro e nessuno oserà muovere un dito contro di noi. E nei minuti in cui tutto il progetto si sgretolava Andrea Agnelli, il braccio destro di Perez, vaneggiava ancora di “patto di sangue” tra i club. Un film di fantascienza, se non fosse accaduto davvero. Perché qui parliamo delle 12 società più ricche del mondo, con i 12 amministratori delegati più pagati, con i 12 studi legali più agguerriti del globo e con un colosso come JP Morgan, pronto a finanziarli sull’unghia con miliardi di Euro. Come si spiega tanta improvvisazione? Solo la disperazione, l’impellente necessità di sopravvivenza, può forse giustificare un tale incapacità strategica, manageriale e comunicativa. È prevedibile che nelle prossime settimane cadranno altre teste, oltre a quella dell’AD del Manchester United.
Il risultato di questa iniziativa dilettantesca, è che in 72 ore l’allegra combriccola ha polverizzato tante buone ragioni; rinunciato a posti chiave nelle stanze dei bottoni delle istituzioni europee; perso ogni forza negoziale; trasformato in eroe uno dei peggiori presidenti che l’UEFA abbia mai avuto. È stato sotto la presidenza Ceferin che i club ricchi sono diventati sempre più ricchi, precludendo de facto alle altre società la scalata alle posizioni di vertice. È sotto la sua guida che si sono chiusi entrambi gli occhi sulle sponsorizzazioni gonfiate, sulle plusvalenze fittizie, su altre crasse violazioni e sulle storture del Fari Play Finanziario e sullo strapotere dei procuratori. È Ceferin il tappo che ha finora bloccato o rallentato ogni evoluzione dei tornei e del gioco (fosse per lui, il VAR verrebbe abolito). Fa solo ridere l’UEFA che si erge a paladina dell’etica dello sport.
Così come fa sbellicarsi la Fifa che - per dirne una tra le molte - in nome degli interessi economici e commerciali, butta per aria calendari e tradizioni per far disputare un mondiale invernale in Qatar. Ad oggi 6’500 lavoratori immigrati sono morti per costruire le infrastrutture che ospiteranno l’evento. I decessi per Covid nell’Emirato sono stati poco meno di 400, per dare un metro di paragone. Altro che etica. Altro che valori. Altro che difesa dei tifosi. Lo stesso dicasi per tutte quelle federazioni nazionali che vanno a giocare le finali di coppa da chi sgancia di più, in barba ai diritti umani o delle donne.
Risate amare suscitano anche le prese di posizione ipocrite di alcuni allenatori e calciatori, assurti ad eroi per essersi schierati contro la Super League. Come Pep Guardiola, 20 milioni di sterline di stipendio all’anno, che ci ha fatto il suo predicozzo sul merito sportivo, dimenticandosi ciò che candidamente ammetteva solo poche settimane fa: vinciamo perché al Manchester City possiamo comprare tutti i giocatori che vogliamo. Grazie ai petrodollari di uno Stato, Abu Dhabi, proprietario del club, aggiungiamo noi. Se la SuperLeague era un torneo di plastica, non è meno sintetico il City. Per non dire dei calciatori del Liverpool, o di altri nel continente, che nonostante la pandemia e il dissanguamento finanziario dei rispettivi club, stanno battendo cassa come forsennati, chiedendo esorbitanti aumenti d’ingaggio per rinnovare contratti già principeschi. Quando negoziano il loro stipendio, improvvisamente, i valori sportivi e i tifosi, passano in secondo piano.
Tutto questo per dire che la SuperLega è svanita, ed è un bene, ma tutti i giganteschi problemi che gravano sul calcio sono ancora lì. I 12 club hanno fallito e se ne tornano giustamente a casa con le pive nel sacco. Ora vediamo se tutti quelli che si sono opposti - UEFA, federazioni nazionali, calciatori e allenatori - sapranno proporre soluzioni migliori, magari rinunciando a una parte dei rispettivi introiti. Permetteteci di dubitare.