Il mancato rinnovo del portiere rilancia con forza alcune delle questioni emerse con la vicenda della SuperLega
di Andrea Leoni
In un paio di giorni il Milan ha gettato le basi per tornare ad essere un club all’altezza della sua storia e del suo prestigio. Domenica sera la squadra si è qualificata alla Champions League, ponendo fine a un’assenza drammatica, sia sportivamente che economicamente, di sette anni dal calcio che conta. Martedì la società ha riaffermato un principio che sta alla base di ogni progetto sano e che aspira la successo: nessuno è al di sopra del club. Neppure Gianluigi Donnarumma, formidabile talento svezzato in casa, fatto esordire ancora minorenne da Sinica Mihajlovic e già capitano a soli 22 anni in questo finale di stagione.
Su entrambe le pietre su cui si cercherà di edificare il ritorno del Milan nell’élite calcistica c’è la griffe di Paolo Maldini. Manteniamo l’equilibrio nel giudizio, senza farci ammaliare dal tifo, dall’ammirazione per l’eterna bandiera o dal risentimento verso il "core ngrato" numero 99. Da un punto di vista economico lasciare partire Donnarumma senza intascare un Euro, è un danno patrimoniale rilevante per la società, soprattutto in epoca Covid. Il Milan perde malamente uno dei suoi asset principali: il giocatore della rosa che avrebbe fruttato più denari dalla vendita del cartellino. Da questo punto di vista non può essere considerato un successo per il management. Anche se le attenuanti non mancano: i calendari e l’ultimo mercato estivo sfalsati dalla pandemia; la probabile volontà di Mino Raiola di portare comunque a scadenza il suo assistito ingaggiando trattative fumose se non farlocche; la speranza di provarci fino alla fine contando sui supposti sentimenti di un ragazzo che ogni tre per due limonava con la maglia in campo.
Su questo aspetto restano scolpite nella pietra le parole di qualche tempo fa di Billy Costacurta: “Bacia la maglia... Baci la maglia perché? Io sono di tradizioni vecchie. Poi bacerai quella dopo? Non riesco ad arrivarci. Preferirei meno baci ma più dimostrazioni". A Donnarumma nessun milanista ha mai chiesto nulla di più dell’onesta che si richiede ad ogni professionista serio: la trasparenza sulle sue legittime intenzioni. Se lui avesse espresso apertamente la la volontà di trasferirsi altrove, per denaro o per ambizione o per entrambi, nessuno gliene avrebbe fatto una colpa. Invece il suo atteggiamento è sempre stato ingannevole rispetto ai sentimenti dei tifosi, in un mix di silenzi, ammiccamenti, piccole codardie celate sotto la gonna di Don Mino. La delusione per l’uomo prevale già sulla nostalgia per le grandi parate.
Ma probabilmente il danno economico per la mancata vendita di Donnarumma - a cui verosimilmente si sommerà quella di Chalanoglu - era il prezzo da pagare per riafferma il Verbo di cui si diceva all’inizio. È un prezzo salato, ma che vale la pena pagare se si ha, come nel caso, una proprietà che può permetterselo. Del resto lo scrivevamo qualche settimana fa, esortando il Milan e gli altri club a non cedere alle pretese di certi “vitelloni nella bambagia” a caccia di rinnovi indecenti, in un’epoca in cui il mondo intero, e quello del pallone, sono a gambe all’aria a causa della pandemia.
Gigi Donnarumma, a 22 anni, ha rifiutato un rinnovo principesco da 8 milioni a stagione, due milioni in più dello stipendio iscritto nell’ultimo contratto. Il suo agente ne chiedeva 12 ma pare che abbia detto che “per meno di 10 neppure ci sediamo a parlare”. Per curiosità siamo andati a spulciare i salari dei quattro portieri semifinalisti della Champions League: Ederson (3,4 milioni di sterline), Mendy (1 milione di sterline), Courtois (7,2 milioni di Euro), Keylor Navas (7 milioni di Euro). Aggiungiamoci gli ultimi due vincitori della Coppa: Neuer (7,6 milioni di Euro), Allison (4,6 milioni di sterline). Due annotazioni a bruciapelo: nessuno dei portieri si avvicina all’ingaggio chiesto da Raiola; si può arrivare a competere sul tetto d’Europa con portieri diversi, più o meno forti, dell’italiano.
Il fatto che su questa decisione, così delicata e importante, ci sia la firma di Paolo Maldini, rappresenta per il mondo milanista non tanto e non solo una scelta sportiva, ma una sorta di giudizio d’idoneità rossonera - per attitudine, valori e cultura- emesso dalla Storia del club. Il direttore tecnico rossonero sta crescendo molto come dirigente, ha fatto ottime cose e qualche strafalcione, come è normale che sia essendo nuovo del mestiere, ma al di là del suo ruolo dirigenziale, Maldini incarna la dottrina: è il guardiano del tempio. E i tifosi lo sanno bene: qualsiasi scelta farà Paolo, giusta o sbagliata, nel bene o nel male, sarà sempre fatta pensando al bene del Milan e non ad altri tornaconti, a cominciare dal suo. È una garanzia formidabile.
Ciò detto la storiaccia di Donnarumma, ripropone con prepotenza alcune delle questioni che erano esplose con la vicenda della SuperLega e che vanno ben oltre il tinello di casa Milan. La principale riguarda le commissioni degli agenti. Invece che andare a caccia di abiure e sanzioni per i club che avevano dato vita al progetto scissionista, il presidente dell’UEFA dovrebbe chinarsi su questo scandalo enorme che ha lo stesso impatto nefasto sull’ecosistema calcistico del cambiamento climatico sul pianeta. I calciatori ormai non sono più dipendenti delle società - che li pagano, li curano, li consacrano alla celebrità - ma beni che le grandi agenzie di procura affittano ai club, con intrecci tra proprietà, dirigenti e procuratori sempre più spregiudicati. Di fatto il cartellino di Donnarumma non è mai appartenuto né al Milan né al giocatore, ma a Raiola, che infatti avrebbe chiesto 20 milioni per trattenerlo e altrettanti, se non di più, ne chiederà per spostarlo.
Se c’è un elemento positivo che questa pandemia ha portato nel mondo del calcio, è quello di aver imposto come uno sberlone il tema della sostenibilità. La montagna di debiti creata dai club, soprattutto dai grandi club, non è più sopportabile e il Covid ha smascherato la malagestione su cui è stata edificata negli anni la Torre d’Avorio del pallone. Uno sveglione che vale per tutti, per chi ha vinto e chi no, vedi l’Inter, costretta a richiedere un prestito da 250 milioni (cioè ad ipotecare la società con un nuovo debito a tassi d’interesse vertiginosi), per onorare gli stipendi non pagati della stagione appena conclusasi e ora costretta a un forte ridimensionamento del progetto sportivo, con il sacrificio di Antonio Conte e di alcuni calciatori protagonisti dello Scudetto. È un fatto enorme: a livello di grandi squadre, almeno nel recente passato, non c’è mai stato un problema di liquidità diffuso, quasi sistemico, per saldare le spese mensili.
Noi del Milan ci siamo già passati. Abbiamo pagato con l’esclusione dalle Coppe e con tanti passaggi a vuoto sportivi, la sbornia della campagna acquisti cinese e le angosce di una proprietà incapace di far fronte alle scadenze, così come gli spettri e le voragini di bilancio lasciati dal crepuscolo berluscioniano. Inizialmente è stato dura digerire - e il primo a far fatica è stato proprio Maldini - il progetto giovani fondato sullo scouting e le statistiche (con la sola, decisiva, deroga per Kjaer e Ibrahimovic), gli acquisti a cifre contenute, i prestiti dalle grandi squadre, il taglio del monte ingaggi. La linea imposta da Elliot, insomma. Oggi però abbiamo una squadra che ci diverte, la più giovane del campionato, che ottiene risultati e che ci dà una prospettiva di crescita e non di ridimensionamento. Sarà più lunga, sarà più difficile, forse non ci condurrà alla vittoria, ma oggi più che mai vale la pena proseguire con convinzione sulla strada della sostenibilità fra campo e cassa. A costo di scelte traumatiche, come quella di Donnarumma.