La Diocesi ticinese ha preso posizione questa mattina sull’indagine pubblicata ieri dall’università di Zurigo. I documenti distrutti e le vittime in Ticino
LUGANO - La Diocesi ticinese ha preso posizione questa mattina sull’indagine pubblicata ieri dall’università di Zurigo, che ha accertato oltre mille casi di abusi sessuali all’interno della Chiesa cattolica svizzera negli ultimi settant’anni (LEGGI QUI). “È un documento che ci spaventa e ci sconcerta. Non c’è cosa peggiore di un pastore che diventa lupo. Per questo non possiamo paragonare gli abusi nell’ambito ecclesiastico ad abusi che avvengono in altre realtà”, ha detto l’amministratore apostolico della Diocesi Alain De Raemy, che ha condotto la conferenza stampa insieme a Fabiola Gnesa, giudice dei minorenni e presidente della Commissione di esperti in caso di abusi sessuali in ambito ecclesiale.
“Questo documento – ha aggiunto - non serve a voltare pagina, ma ad aprire la pagina. Il lavoro dei ricercatori ha permesso di confrontarci con documentati e ripetuti comportamenti illeciti per i quali la gerarchia ecclesiastica deve rispondere. I 1002 casi identificati, la punta dell’iceberg, testimoniano l’irresponsabilità di molti che è stata causa di immense sofferenze per le vittime di abusi a scapito degli autori di questi misfatti che spesso sono riusciti a passarla liscia cercando di salvaguardare la buona reputazione della Chiesa ed evitando lo scandalo”.
I documenti distrutti in Ticino
Don Nicola Zanini, delegato ad omnia dell’amministratore, pure presente alla conferenza stampa, ha parlato della distruzione di documenti relativi a casi accaduti in Ticino che, secondo il rapporto, non permetterà di ricostruire in modo attendibile il numero di abusi sessuali commessi da sacerdoti e religiosi nel territorio della Diocesi di Lugano. Ha spiegato che si tratta di una “questione spinosa” per l’opinione pubblica, i fedeli e la Diocesi, e che l’errore commesso allora “fu quello di distruggere i documenti senza lasciare una traccia”. Zanini ha aggiunto che il riordino dell’archivio diocesano “è stato lento e difficoltoso ed è migliorato solo negli ultimi anni con l'arrivo del nuovo archivista”.
Fabiola Gnesa ha comunque precisato che negli ultimi vent’anni nessun documento è stato distrutto, e che c’è stata una grande volontà di trasparenza.
Il caso che tocca l’Amministratore apostolico
Alain de Raemy, ha parlato anche del caso che lo toccato direttamente nell’ambito dell’indagine promossa dal vescovo di Coira sulle accuse mosse a membri emeriti e in carica della Conferenza dei vescovi svizzeri sulla gestione di casi di abusi sessuali: “Mi bruciano le labbra, ma non posso parlare fino a quando l’indagine è in corso. La sua fine è prevista per fine anno”. E sull’ipotesi di un suo eventuale passo indietro ha aggiunto: “Se si accerta la responsabilità e che c'era la possibilità di sapere è opportuno farlo”.
Il mea culpa a nome della Chiesa
De Raemy ha poi fatto il mea culpa a nome della Chiesa: “Non possiamo non riconoscere questa colpa e metterci davanti alla grande sofferenza di chi ha subito questo trattamento. È elementare dovere di giustizia verso le vittime rimaste da sole con la loro indescrivibile sofferenza. Siamo davanti a una sfida di verità e conversione per tutta la comunità ecclesiastica. Faremo tutto il possibile per rendere giustizia alle vittime e per impedire ulteriori abusi. Vogliamo impegnarci per un cambiamento definitivo, per consegnare alle nuove generazioni una Chiesa più umana e degna del Vangelo”.
I casi emersi in Ticino dal 2019
Fabiola Gnesa, ha spiegato il ruolo della Commissione che presiede: “A seguito del primo documento della Conferenza dei vescovi svizzeri sugli abusi sessuali nel 2009, è stata creata dall’allora vescovo Pier Giacomo Grampa la Commissione esperti della Diocesi di Lugano, che non è mai stata convocata fino al 2016. Nel 2014, nell’ambito dell’attuazione della terza edizione delle direttive della Conferenza dei vescovi svizzeri, monsignor Valerio Lazzari ha riattivato e istituto nuovamente la Commissione di esperti diocesani. In questo periodo la Commissione è venuta a conoscenza do cinque casi, quattro di questi sono stati trattati direttamente dalla Commissione. Le vittime sono state ascoltate e accolte. Tutte le persone coinvolte erano consapevoli che raccontare nuovamente l’abuso subito poteva portarle a rivivere questo dolore”.
Due casi, ha aggiunto Gnesa, hanno permesso alle vittime di ottenere da parte della Commissione nazionale un risarcimento, “che non ha risolto le loro sofferenze, ma le ha aiutate”. Un terzo caso si è risolto con una lettera di scusa da parte del Vescovo, un quarto con un incontro con il Vescovo e una lettera di scuse da parte della Chiesa. Il quinto e ultimo caso, che riguarda un parroco del Locarnese, l’unico autore ancora in vita, è stato trasmesso all’autorità penale civile.
Gnesa: “Eventuali vittime si facciano avanti”
Gnesa ha rivelato che tre persone hanno chiesto informazioni telefonicamente, ma non hanno voluto essere identificate: “Nessuna di loro ha dato seguito a questo contatto telefonico”. La presidente della Commissione ha quindi lanciato un appello pubblico: “Invito le persone vittime di abusi sessuali nell’ambito ecclesiale a farsi avanti. Noi possiamo solo raccogliere le testimonianze”. E ha ricordato che la Commissione è un ente esterno alla Chiesa, cosa che dovrebbe indurre le eventuali vittime a fidarsi e a raccontare la loro drammatica esperienza.