Aveva 67 anni e se n'è andato all'improvviso la notte scorsa...
Di Marco Bazzi
Tristezza, smarrimento, incredulità… Non trovo altre parole, adesso. Lillo Alaimo se n’è andato all’improvviso, nel cuore della notte. In pochi istanti. Aveva 67 anni. Dopo la fine della sua lunga avventura al Caffè – l’ultimo numero del settimanale uscì nel luglio del 2021 – aveva lasciato Locarno e si era trasferito a Cannobio, nell’appartamento in cui avevano vissuto i suoi genitori, affacciato sul lungolago. Un anno fa aveva sposato Patrizia, per tanti anni sua compagna di vita. È stata lei, questa mattina, a darmi la notizia.
Niente retorica: Lillo Alaimo è stato un grande giornalista, con tanti amici ed estimatori, e tanti nemici e detrattori. Come accade in questa professione se la si fa con coraggio e con passione. E lui la passione ce l’aveva nel sangue. Basti questo.
Ed è stato un grande amico, non solo collega ma anche compagno di tante avventure. Come accade nelle grandi amicizie, non sono mancati negli anni, divergenze di vedute, allontanamenti, silenzi e incomprensioni. Ma sempre ricomposti in nome di un legame profondo e di una reciproca stima.
In questa triste mattinata del Venerdì Santo pensieri e ricordi si rincorrono e si intrecciano. Quando ci siamo conosciuti? Vorrei che fosse lui a raccontarmelo. Ma non è più possibile.
Doveva essere il 1988, Lillo era già l’anima dell’Eco di Locarno, mentre io avevo appena iniziato la carriera alla redazione regionale del Giornale del Popolo, sotto la guida severa e a tratti arcigna dell’allora caporedattore Giuseppe Zois. A lui e a Lillo devo moltissimo di quanto ho imparato in questo mestiere.
A fine giornata ci si trovava spesso al caffè Paolino, in piazza Grande, per l’aperitivo, e a volte si andava a cena al ristorante Da Luigi. Eravamo giovani… Ci confidavamo sulle nostre storie sentimentali, ci confrontavamo sulla cronaca e sul giornalismo piatto e scialbo di quegli anni…
Tanti ricordi. È come sfogliare un album di fotografie, come veder scorrere davanti agli occhi la pellicola di un film. Il film della vita. Che per lui è terminato la notte scorsa. Come quando la pellicola finisce e sullo schermo compare una luce bianca, accecante, e senza immagini.
Dicevo delle avventure. Quasi zingarate giornalistiche. Si prendeva la macchina – quella di Lillo era una comoda Citroen – e si partiva alla ricerca di qualcosa.
Un giorno andammo insieme a Borgosesia a intervistare Pino Casagrande, il ‘veggente’ che ogni 13 del mese vedeva la Madonna a Scarpapé, sulla collina di Giubiasco. Ci accolse in un appartamento popolare pieno di cianfrusaglie e di immagini sacre. Lavorando per il quotidiano della Curia, non scrissi nulla. Accompagnai Lillo per curiosità. Pino Casagrande ci mostrò delle foto, le mise sul tavolo del salotto e disse: “Guardatele bene, vedete, qui c’è la Vergine Maria, qui Gesù. Prendete la lente, guardate... si vede anche la corona di spine?”. Decine di Polaroid. Perché le foto a Cristo e alla Madonna venivano solo usando quella macchina.
Sempre tra sacro e profano, andammo insieme a Torino a un convegno sul Diavolo. Un evento - del quale conservo ancora gli atti - durante il quale incontrammo il celebre sacerdote socialista Gianni Badget Bozzo, scrittore e all’epoca prestigiosa firma di Repubblica, e Gianluigi Marianini, ex campione di Lascia o raddoppia, il quiz televisivo che Mike Buongiorno condusse prima di Rischiatutto. Marianini ci parlò di un misterioso personaggio, amico suo, che viveva a Giaveno, sulle colline torinesi: il pittore Lorenzo Alessandri. Andate a trovarlo, è considerato “il pennello del Diavolo”. Ci andammo, e fu straordinario entrare nella grande cascina che Alessandri aveva trasformato in una sorta di museo di oggetti magici, in prevalenza orientali. Tra questi, ci mostrò con orgoglio una “Mano di Gloria” avvolta in un panno di feltro: l’arto che nell’antichità veniva tagliato agli impiccati e in seguito essiccato e conservato in salamoia. Disse che era la mano di una strega. Ispirandosi alla cultura tibetana, Alessandri dipingeva streghe e demoni e su ogni parete c’erano quadri inquietanti. Ho ancora i suoi libri…
Poi, quando lasciammo la villa di Alessandri, l’auto di Alaimo, che era nuovissima, non partì. “Accade spesso a chi viene a trovarmi”, disse Alessandri. Fummo scossi da un moto di inquietudine.
Prima di tornare in Ticino andammo a trovare un anziano prete della Diocesi di Torino: si chiamava Don Lupo ed era una degli esorcisti autorizzati dal Vescovo.
Tanti ricordi, e ce ne sarebbero altri. L'unica cosa che riesco a fare, adesso, in questo momento di lutto che mi pervade l'anima, è ricordare...
Quando nel 1992, dalla fusione tra Eco di Locarno e Dovere, nacque LaRegione, Lillo mi volle come caporedattore centrale del nuovo quotidiano. Poi, quando l’anno successivo ci fu la rottura tra i Rezzonico e i Salvoni, io, lui e altri colleghi lasciammo il giornale. E con Flavio Maspoli, che allora affilava le armi per la sfida a Marco Borradori nella battaglia per il Consiglio di Stato, creammo l’Altra Notizia.
Durò un anno, quell’avventura, perché con Maspoli era difficile andare d’accordo. Così, io presi la via della televisione, con l’esperienza che sfociò nella nascita di TeleTicino, e lui quella del Caffè, nato come giornale del tempo libero. Come lo chiameresti?, mi chiese. Il Caffè, risposi.
Di Lillo va ricordata senza dubbio l’inchiesta che fece, durante la sua lunga direzione del settimanale, sul Ticinogate, pubblicando la foto simbolo di quell’inchiesta, quella che ritraeva sulla banchina del porto di Fano l’allora giudice Franco Verda insieme al contrabbandiere Gerardo Cuomo.
Che altro dire? Nulla, ora è il momento del silenzio e del dolore per coloro che hanno condiviso con lui momenti importanti della propria vita. Addio, amico mio. Riposa in pace.