La giornalista di TeleTicino, che ha raccontato di aver sofferto della malattia: "Provo sgomento. Purtroppo riesco a immaginare molto bene cosa abbia provato"
Giorgio Perinetti, tra i più noti manager del calcio italiano, ha raccontato la vicenda della malattia e della scomparsa di sua figlia Emanuela, morta l'anno scorso a soli 34 anni a causa dell'anoressia. Che sentimenti e riflessioni ti suscita questa storia?
"C’è un solo aggettivo che descrive cosa provo ogni volta che leggo di come una giovane vita si sia spenta a causa di un disturbo alimentare: sgomento.Eppure è la realtà nuda e cruda, i DCA (disturbi del comportamento alimentare), se non curati adeguatamente, possono portare alla morte. Ed è un’eventualità meno rara di quanto si sia portati a credere. Secondo l’OMS l’anoressia è la seconda causa di morte tra le giovani di un’età compresa tra i 12 e i 25 anni. In Italia, dicono le statistiche, ogni anno muoiono circa 400 persone. È una strage silenziosa, drammaticamente ignorata.
Purtroppo riesco ad immaginare molto bene cosa abbia provato Emanuela: la profonda solitudine, la disperazione, quel buio nell’anima che ti soffoca ogni giorno un pochino di più. Ho creduto anche io di non farcela più, ma la mia più grande fortuna è stata quella di riuscire a fare un passo indietro prima che fosse troppo tardi, ogni volta che mi sono trovata pericolosamente sull’orlo del burrone. La verità è che quella contro i DCA è una battaglia estenuante e spesso silenziosa".
Giorgio Perinetti dice di non sapersi spiegare come una donna con una carriera di successo come la figlia, sia potuta scivolare in questo baratro. Inoltre si decide deluso da sé stesso per non essere riuscito a salvare sua figlia. Cosa puoi dire su questi aspetti?
"Quello di Pertinetti è un bias purtroppo tremendamente diffuso. Molti sono portati a credere che persone di successo, istruite, con una famiglia solida alle spalle ed una forte personalità, siano al riparo. Ma il male dell’anima può colpire chiunque. Anzi, forse tende a colpire maggiormente chi crede di dover sottostare ad aspettative altissime, chi pone ogni giorno l’asticella un pochino più in alto. Non mi sorprende che i DCA siano in drammatico aumento in quella che io definisco “la società della performance”.
Una volta le donne erano relegate a ruoli marginali. Oggi possono fare tutto: anzi, è più corretto dire che debbano farlo. Devono essere donne di successo, madri presenti, compagne amorevoli e continuano a dover essere belle. Una pressione sociale che può soffocare.
È comunque illusorio pensare che un famigliare possa, da solo, salvare chi soffre di un DCA. Può sostenere senza giudicare, può accompagnare ed essere presente, come può fare per qualsiasi altra malattia. Ma non dipende dal famigliare la salvezza di un malato".
In conclusione Perinetti invita le famiglie che si trovano confrontate con questo problema a rivolgersi immediatamente ad associazioni e specialisti. A tuo avviso in Ticino c'è una sufficiente sensibilità su questo problema sempre più diffuso e abbiamo i necessari serviti per la presa a carico?
"Da anni combatto per sensibilizzare mondo politico ed opinione pubblica sul tema DCA. Purtroppo ritengo che il problema sia ancora drammaticamente sottovalutato. Troppo spesso si tende a considerare questi disturbi alla stregua di capricci da ragazzine viziate. Invece, non mi stancherò mai di ripeterlo, sono vere e proprie malattie. Malattie che, per inciso, gettano nella disperazione intere famiglie. I dati dicono che colpiscono sempre di più e sempre prima, addirittura in età pre puberale.
I posti letto dedicati a chi ne soffre sono troppo pochi, così come il personale formato per seguire questi pazienti. Riconosco gli sforzi fatti dalle autorità, ma non è ancora sufficiente. È fondamentale intervenire tempestivamente, prima che la malattia diventi cronica. Le possibilità di guarigione, come per ogni malattia, sono tanto più alte quanto prima si affronta.
Io ne sono l’esempio vivente, perché con l’anoressia ho dovuto fare i conti per la maggioranza della mia vita.
Il reparto di cura dei DCA dell’ospedale Beata Vergine è un centro di eccellenza che andrebbe rafforzato. Io ci sono arrivata dopo i 30 anni ed è stata come una carezza all’anima. Se fosse andata diversamente, se ci fosse stato quando ero un’adolescente, forse mi sarei risparmiata tanta sofferenza. Ormai per me è andata così. Ma ci sono tanti giovani donne per cui può andare in modo diverso. E per loro io non mi stancherò mai di combattere".