Più che duplicate, negli ultimi tre anni, le richieste di operazioni. Ma a spaventare è l’aumento di chi, operato, se ne pente. Il Federalista ha intervistato l’endocrinologo Fabio Cattaneo
Di Redazione IlFederalista.ch
Sono numeri rilevanti quelli diffusi dall’ufficio federale di statistica sull’aumento delle richieste di operazioni per un cambio di sesso negli ultimi dieci anni. Occorre fare chiarezza, anche perché, i primi dati diffusi dall’UST erano sbagliati: nella statistica 2019-2022 erano stati accidentalmente invertiti i generi. Recentemente sono stati corretti, e ne risulta quanto segue.
Esplodono le richieste di operazioni per il cambio di sesso tra le giovani donne
L’incongruenza di genere è il disagio percepito da un individuo che sente di appartenere al sesso opposto rispetto a quello fenotipico di nascita. Quando questa incongruenza è causa di sofferenze, di disagi e depressioni si parla di “disforia di genere”. Tra le possibili vie percorribili per ovviare a tale disagio, c’è quella radicale delle operazioni chirurgiche.
Sono i giovani - e negli ultimi tempi in particolare le giovani donne - ad aver inoltrato il maggior numero di richieste per interventi ormonali e chirurgici riguardanti il cambio di sesso. Questo dato rappresenta una svolta notevole rispetto al recente passato.
Fino a dieci anni fa, infatti, la maggior parte delle persone che richiedevano trattamenti per il cambio di sesso erano adulti maschi. Il numero di interventi è rimasto molto basso fino al 2018, per poi aumentare in modo costante, passando da 248 nel 2019 a 525 nel 2022 (+115%). Gli interventi di transizione da femminile a maschile sono aumentati in modo più marcato (+123%) rispetto a quelli da maschile a femminile (+102%). È significativo che più della metà dei richiedenti presentasse, oltre alla disforia di genere, disturbi psichici come depressione, autismo, disturbi da deficit di attenzione, disturbo borderline della personalità, secondo alcuni autori disagi preesistenti alla stessa disforia.
Aumento dei rimpianti: sempre più numerose le richieste di “de-transizione”
In concomitanza con l’aumento di interventi, però, emerge anche l'allarmante dato della percentuale di pazienti che, ad operazioni compiute, si sono trovati pentiti, manifestando il desiderio di tornare al sesso originale. Molti dei quali hanno poi intrapreso il percorso che viene chiamato processo di “de-transizione”.
Purtroppo, la “de-transizione” non può quasi mai essere completa, poiché molti tratti modificati dalla transizione sono infatti irreversibili: la perdita di fertilità, il timbro della voce mascolinizzata, seni, utero o organi genitali esterni amputati e non “ricostruibili” ne sono solo alcuni esempi.
È dunque opportuno cercare di capire cosa stia alla radice di questa esplosione di richieste e come mai il numero di operati “pentiti” sia in così forte aumento. È provato ad esempio che, come si sostiene, prima di proporre un intervento operatorio vengano compiute valutazioni psichiche adeguate?
Gli endocrinologi rappresentano una delle categorie mediche direttamente chiamate in causa nei percorsi di transizione di genere. Sono loro a prescrivere i trattamenti ormonali che costituiscono il primo gradino del mutamento, al quale peraltro non sempre farà seguito l’operazione chirurgica. È attraverso uno di loro che abbiamo scoperto l’entità del fenomeno e la sua drammaticità, ed è con lui, Fabio Cattaneo, endocrinologo appunto, che ne approfondiamo la portata.
Le ragioni dell’esplosione
Una delle narrazioni più gettonate sostiene che l'esplosione di richieste sarebbe dovuta alla maggior consapevolezza sociale raggiunta sul tema: finalmente, si dice, siamo giunti a un momento in cui il transgender non ha più paura di nascondersi e, pertanto, si registrerebbe una lievitazione delle richieste. L’analisi, però, non è del tutto convincente. “Al momento non esiste una spiegazione scientifica per aumento di casi e calo di età. È necessario” aggiunge Cattaneo, “includere nelle ragioni di questo aumento anche l’ipotesi di una pressione socio-culturale crescente e l'effetto di contagio tra coetanei mediato dai social media; esiste infatti una narrazione squilibrata sul tema, con un numero sproporzionato di contributi nei film, libri, interventi in ambito scolastico, media e social-media. Ma mi sembra anche che una certa responsabilità sia da imputare all’approccio medico banalizzato”.
Un approccio medico banalizzato
In sostanza, se una volta a richiedere il cambiamento di sesso erano quasi esclusivamente persone giunte a quella scelta dopo una lunga maturazione e riflessione sulla propria condizione e spesso dopo aver affrontato battaglie di accettazione sociale, oggi la situazione è ben diversa. A richiedere questo tipo di intervento sembrano essere oggi giovani confusi e sofferenti, oltre che poco in chiaro su ciò che stanno vivendo. C’è consapevolezza di tutto ciò nella classe medica? “Negli ultimi anni”, ragiona Cattaneo, “molti medici specialisti coinvolti nei trattamenti hanno favorito una ‘de-patologizzazione’: si cerca di ridurre al minimo il bilancio psichiatrico a inizio transizione e si sposta l'accento sul diritto di autodeterminazione della persona. Si tratta di un approccio centrato sull’affermazione del genere e la sua conseguenza è una sempre più ridotta proposta di trattamento psicoterapeutico. È un dato allarmante, poiché le linee guida più diffuse parlano della psicoterapia come necessario ‘approccio iniziale’”. Insomma, per il giusto rispetto dell’autodeterminazione della persona, si sottovaluta l’importanza di sondare a fondo le ragioni.
Si abbassa l’età di accesso alle operazioni di transizione
Ad allarmare Cattaneo è la tendenza a diagnosticare la disforia in sempre più tenera età. “È preoccupante la sempre maggior facilitazione nell’accesso a queste pratiche per bambini e giovanissimi -l’età minima di accesso alla chirurgia diventa sempre più bassa-, ai quali vengono spesso somministrati ormoni per bloccare o ritardare la pubertà naturale. Di queste pratiche, peraltro, non conosciamo le conseguenze a lungo termine”.
Le cause della de-transizione
Vi sono dati che quantificano oggi l’aumento dei casi di gender regret, ovvero di richieste di recesso dal cambiamento di sesso; sono dati, questi, di cui si sente poco parlare. È ancora l’endocrinologo a venirci in aiuto: “Recenti studi suggeriscono tassi che vanno dal 6% al 30% di persone che rimpiangono di essersi operate (si veda per esempio qui, qui e qui). Storicamente si tratta di una svolta: il dato ‘tradizionale’ ha sempre affermato un tasso di rimpianto inferiore all’1%. Molti, oggi, continuano a citare erroneamente questo dato”. Studi ancor più recenti suggeriscono che questi tassi potrebbero essere anche più elevati, come ci spiega il medico: “I nuovi dati potrebbero essere sottostimati poiché molti centri non raccolgono risultati a lungo termine e i pazienti intenzionati a iniziare un percorso di de-transizione tendono a non ripresentarsi agli specialisti iniziali”.
Cerchiamo di capire le cause delle frequenti de-transizioni. “Tra le ragioni” spiega Cattaneo “che spingono i pazienti a cambiare idea c’è il mancato miglioramento dello stato psichico dopo la transizione e la comprensione che alla base della disforia di genere c'erano traumi o patologie pre-esistenti irrisolti. Altri decidono di de-transizionare per timore di complicanze mediche” (condizioni di salute instabili e assunzione di numerosi medicinali). Sono purtroppo numerose, aggiunge Cattaneo, le testimonianze in internet di chi racconta il dramma della de-transizione (https://www.reddit.com/r/detrans/, forum con 51'000 partecipanti; detransawareness.org; post-trans.com).
Un passo indietro?
“Sono preoccupato”, sintetizza Cattaneo, “per la crescente fretta nel proporre trattamenti, per il mancato rispetto del principio di precauzione e per la qualità spesso scarsa delle pubblicazioni scientifiche. L’abolizione dei limiti di età per iniziare i trattamenti ormonali e chirurgici, così come fissata nell'ultima versione delle linee guida della principale società di specialisti nel campo (la WPATH, vedi qui), solleva in me molte preoccupazioni. Alcuni specialisti sembrano ignorare i segnali di allarme e il fenomeno emergente della de-transizione. E la mia”, conclude, “non è una preoccupazione fondata su casistiche astratte ma su casi concreti e drammatici di pazienti che si sono rivolti a me. Credo sia importante fare un passo indietro e considerare i risultati a lungo termine dei trattamenti, nonché offrire alternative senza ormoni e chirurgia per alcune persone”.