IL FEDERALISTA
Scuola e disforia di genere, Speziali: "No a una narrazione unilaterale"
"Il PLR, il Centro e altre forze politiche stanno iniziando a prestare maggiore attenzione a ciò che accade nel mondo scolastico, perché teorie, sempre rivestite di “scienza”, finiscono nei piani di studio e nell'approccio didattico"
TiPress/Samuel Golay

di Claudio Mesoniat - Il Federalista

Durante l’ultimo anno siamo tornati più volte su un problema che nelle cronache fa capolino solo in occasione di qualche puntuale polemica (l’agenda scolastica, ricordate?) ma nella realtà si va da tempo ingrossando ed è sintomo di un grave deficit educativo e medico-sociale. Parliamo del disastro provocato da un approccio medico banalizzato ai sempre più frequenti casi di cosiddetta “disforia di genere”. O meglio: a quei casi di disagio verso il proprio corpo che non di rado i giovani entrati in pubertà si trovano a vivere.

Una condizione connaturata al processo di crescita della persona umana, ma sempre più spesso inserita sotto il cappello riduttivo di una patologia, la disforia di genere appunto, a sua volta preludio di azzardate “transizioni di genere”, farmaceutiche e/o chirurgiche che siano.

Non si tratta dunque di “combattere” le (già di per sé tristi) “teorie gender” ma, da una parte, di porre l’accento sulle contro indicazioni fornite dalle drammatiche sperimentazioni vissute nel recente passato in Paesi a noi vicini (del Nord Europa in particolare); dall’altra, di mettersi in discussione e cercare di capire cosa comporti un affronto responsabile del crescente, reale, disagio identitario giovanile.

Evidenze scientifiche e culturali che non si possono più ignorare: breve ripasso

Sul primo punto abbiamo visto emergere con sempre maggiore evidenza nel vissuto, nelle ricerche e infine nelle normative dei Paesi più implicati due linee guida fondamentali: l’abbandono di operazioni e cure ormonali a pazienti minorenni, e la necessità di coinvolgere la famiglia nell’affronto della questione.

Circa il secondo aspetto, è invece emersa la necessità di saper ascoltare veramente chi si trova in una situazione di disagio. Era la riflessione di Luca Luigi Ceriani, psicoterapeuta e collaboratore dell’Università Cattolica di Milano, raccolta in un nostro recente articolo:

“Il tema del rapporto con il proprio corpo è complesso e psicologicamente significativo: il problema non può essere ridotto a “sistemare il corpo”; piuttosto, potrebbe essere più utile aiutare il giovane a percepirlo diversamente, specialmente in un’età in cui la percezione corporea è spesso distorta”.

E Ceriani aggiungeva: “Prima di classificare e diagnosticare dobbiamo ascoltare con attenzione. Spesso, dietro la “maschera” della disforia di genere si nascondono sofferenze diverse, che potrebbero essere più vicine a quelle della depressione”.

Una necessità di ascolto che l’approccio affermativo (ovvero quello che adotta il sentimento dell’adolescente sul proprio corpo come unico e inappellabile criterio, anche in vista di un intervento ormonale o chirurgico) purtroppo tende a trascurare.

E il tema, finalmente, approda in politica

Nei giorni scorsi, per la prima volta, una pattuglia di deputati del Centro ha deciso di sottoporre il tema all’attenzione del Consiglio di Stato. I granconsiglieri Giuseppe Cotti e Fiorenzo Dadò sono i primi firmatari dell’interrogazione dal titolo “Bloccanti della pubertà nei minori – È il momento di limitarne l’uso”.

Nel testo consegnato al Governo si accenna al preoccupante contesto europeo e agli allarmanti e sempre più frequenti appelli di medici che chiedono di non banalizzare il tema delle transizioni di genere, in particolare tra i minori. L’atto parlamentare pone in seguito alcune domande al Consiglio di Stato relative ai dati statistici cantonali in materia e ai possibili interventi normativi sul tema, nonché al suo approccio in sede scolastica.

Se l’interrogazione arriva dal Centro, è significativo che essa non stia raccogliendo consensi soltanto all’interno dell’ex PPD. Ne parliamo infatti oggi con Alessandro Speziali, granconsigliere e presidente del PLRT.

“Chiunque alzava la mano veniva scomunicato”

Lei, onorevole, è d'accordo con gli argomenti dell'interrogazione?

Il fatto che sia stata depositata questa interrogazione è molto positivo e importante. È un tema sul quale da tempo stanno cominciando a sorgere interrogativi, anche nell'area liberale radicale. Il punto fondamentale, secondo me, è che mai deve venir meno la possibilità di porre degli interrogativi. È fondamentale sia sul piano della libertà di espressione, della libertà di critica, sia sul piano scientifico. Negli ultimi anni tutto il tema della transizione di genere e della costruzione di genere, che è partito dagli Stati Uniti, ha invaso anche l'Europa, praticamente senza che nessuno alzasse alcuna barriera critica. Tutto è stato assunto come un dogma scientifico, quando invece non lo è. Quindi questa interrogazione è benvenuta, anche perché solleva questioni molto importanti, già evidenziate da diversi ambienti medici, non da ultimo il direttore del Centro di Endocrinologia Pediatrica di Zurigo, Urs Eiholzer.

L’avevamo ampiamente citato, infatti (si veda qui). Non ci pare però che il vostro partito si sia mai distinto nel mettere in discussione questa “moda”. Sbagliamo?

Fino a qualche anno fa è vero. In passato la soglia di attenzione era, anche da parte nostra, davvero bassa. Anche noi da qualche tempo però segnaliamo questo problema, come puri altri che vi sono legati: il dibattito sul genere, la questione della cancel culture, e tanti aspetti attraverso i quali quest'ondata ideologica ha preso piede. E qui mi pare che emerga con chiarezza che stiamo entrando in campi dove la scienza non è più d'accordo. I Paesi che inizialmente volevano essere in prima linea nell’assecondare queste tendenze ora stanno facendo marcia indietro, sulla base di precise ricerche scientifiche.
Guardando al nostro territorio, vediamo e leggiamo quasi quotidianamente, per esempio sulla NZZ, articoli critici nei confronti di quella che a lungo è stata una narrazione mainstream; critici sia nel merito scientifico, sia nel constatare che chiunque alzi la mano viene scomunicato. Non c’è più libertà di parola: questo è un approccio totalmente illiberale.

Ne è forse un esempio la trasmissione "Vite fuori dai binari", andata in onda venerdì scorso su RSI LA1, dove, anziché affrontare i rischi delle cure ormonali e chirurgiche precoci, si è offerta una narrazione unilaterale e piuttosto edulcorata sul tema “disforia di genere”, senza approfondire esperienze in cui tali approcci hanno causato danni. Mancava inoltre, a noi pare, una vera pluralità di vedute: a fronte di quattro voci tendenzialmente favorevoli all’attuale approccio verso le transizioni precoci (moderatore compreso), una sola (quella di Giuseppe Cotti) difendeva l'interrogazione. Con un appello conclusivo ai "giovani confusi" –per compiere l’opera- ai quali si suggeriva di rivolgersi a un'associazione di chiara ispirazione gender, senza menzionare altre prospettive.

Speziali, perché i media continuano a presentare il problema delle transizioni precoci come un “non problema”, banalizzando l’argomentario medico e focalizzandosi su una presunta questione di “diritti civili”?

Perché pur di non avere problemi cercano di ossequiare tutti gli assiomi politicamente corretti, indipendentemente dal fatto che siano veri o meno. Spesso il servizio pubblico offre una visione pseudo-ufficiale di questi racconti. Anche se devo dire che, parlando con alcuni giornalisti, noto che molti non sono d'accordo con la linea che è chiesto loro di tenere. Tuttavia, si adeguano al mood internazionale, e forse anche a direttive interne. E così, onde evitare di passare per retrogradi, si conformano. Finendo per fornire una narrazione unilaterale.

Una narrazione presentata solo nei Media o anche in altri ambiti?

Stiamo assistendo a un’ondata ideologica che ha invaso vari settori della società: le aziende, per esempio, si ritrovano a redigere regolamenti assurdi per non risultare discriminatorie; l'industria cinematografica si uniforma a certi canoni tanto che perfino l'arte perde la sua libertà. Ma il problema più grande è se a questa narrazione unilaterale si aggiunge anche la scuola.

In quale modo la scuola è sintonizzata su questa narrazione?

La scuola non è impermeabile, anzi. Il PLR, il Centro e altre forze politiche stanno iniziando a prestare maggiore attenzione a ciò che accade nel mondo scolastico, perché è sempre più chiaro che queste teorie, sempre rivestite di “scienza”, finiscono nei piani di studio, nell'approccio didattico e nei gruppi di lavoro. Tanto che ormai diversi medici, specialisti, ci contattano per renderci attenti a queste derive.

E cosa dicono?

Dicono che la pubertà è ovviamente un momento della vita umana di nuova consapevolezza, magari anche di smarrimento. E che le spinte di natura gender come risposta a questo smarrimento non portano liberazione ma confusione. Dicono di usare cautela, poiché tante volte i ragazzi e le ragazze soffrono di un malessere legato all'identità di genere, che però è passeggero.

Quindi la tanto conclamata disforia di genere non sarebbe un fenomeno epidemico?

Non sembra. Gli specialisti sostengono che quella di una vera e propria disforia di genere è una condizione che riguarda una media che va dallo 0,5% all'1,5% al massimo della popolazione. Da come se ne parla sembra quasi che un ragazzo su quattro ne soffra. E sostengono anche che non è tutto “scienza” ciò che luccica. Quello proposto da alcuni ambienti politici, soprattutto del fronte rosso-verde, non è un disegno neutro, ma un disegno di superamento dei sistemi sociali. Il che è legittimo da parte loro, a non essere legittimo è cercare di dare un tono scientifico a ciò che scientifico non è.

Le obiezioni sollevate da una parte del mondo medico, stanno però contribuendo a far parlare del tema, e l’interrogazione del Centro ne è la dimostrazione. Secondo lei si prenderà sempre più coscienza della reale natura del problema?

Secondo me è importante che se ne parli. Io per primo voglio essere chiaro: non c'è nessun pregiudizio verso chi effettivamente non si trova bene con la propria identità e ne soffre. Ma al contempo c’è una rivendicazione di libertà, quella di poter lanciare anche in questo caso quel segnale d'allarme che vediamo suonare in tutti i Paesi.

Secondo lei in Ticino il problema esiste o l'interrogazione è preventiva e basata su ciò che accade all’estero?

Non si sa. È ciò che l’interrogazione chiede. La situazione in Ticino potrebbe anche essere più limitata. Ciò non toglie l’importanza di una presenza crescente della politica su questo tema, perché è il miglior modo per esprimere e permettere che si possano esprimere delle critiche agli eccessi del cosiddetto movimento gender. Molte persone si sono oggi autoridotte al silenzio. Molti medici e molti genitori hanno quasi paura di dire qualcosa, o confrontarsi con il proprio figlio, nel timore di essere etichettati come transfobici.

E cosa può fare la politica?

Se la politica si decide ad affrontare il tema, succede che il diritto di critica diventa legittimo. Altrimenti si crea un continuo bisbigliare di persone che non sono d'accordo, ma che non espongono il proprio pensiero per paura di ritorsioni. Ed è per questo che noi lo facciamo. Non come posizione ideologica ma citando delle autorità credibili, citando interventi del mondo scientifico, aiutando così il dibattito a progredire. Penso che parimenti dovrebbero farlo la scuola, il servizio pubblico e i media, la cui funzione è anche quella di verificare se alcune cose abbiano senso, non solo di ripetere quello che “si deve dire”.

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