Perché la vicenda dei cinque procuratori tocca tutti noi
di Andrea Leoni
Il caos giustizia che da settimane tiene banco in Parlamento e sulla stampa, si articoli su diversi nodi, ognuno dei quali ha la sua importanza. L’ultimo, come vi abbiamo riferito martedì, è il ricorso presentato dai cinque procuratori contro i preavvisi negativi spiccati dal Consiglio della Magistratura nei loro confronti (clicca qui). Vi sono poi i WhatsApp scambiati tra il giudice Mauro Ermani e il Procuratore Generale Andrea Pagani. E la partita giocata dal PG nell’intera vicenda.
A questa già di per sé intricatissima matassa si aggiunge la scadenza, fissata dalla legge, che impone al Gran Consiglio di procedere con le nomine della Procura entro la fine dell’anno. Per i cittadini diventa complesso cogliere tutti gli addentellati della vicenda e le relative sfumature, che pure sono importanti, forse potenzialmente decisive.
Tuttavia esiste un nodo che sovrasta tutti gli altri e che chiunque dovrebbe cogliere con un sentimento d’inquietudine. Perché questo elemento mette in discussione un diritto sacro - ribadiamo: sacro - fissato nella Costituzione di qualunque democrazia. Parliamo del diritto ad essere sentiti. Un principio di cui gode ogni cittadino e che fa la differenza tra la Svizzera e la Bielorussia di Lukashenko. È una questione serissima.
Questo diritto è stato finora negato ai cinque procuratori che, fino al preavviso, non erano mai stati oggetto di richiami formali o di segnalazioni all'organo di vigilanza da parte degli attuali vertici del Ministero. Da settimane hanno chiesto ad ogni istanza di poter consultare le carte del Consiglio della magistratura sulla base delle quali sono stati “bocciati”. “Bocciature”, ricordiamo, accompagnate da giudizi brutali e professionalmente infamanti come “pericoloso”, o che suonano come incapace, lazzarone, irrecuperabile.
È impossibile difendersi da tali “accuse” senza poter entrare nel merito. Senza conoscere puntualmente i fatti, i numeri, le circostanze che le hanno prodotte. Ai cinque procuratori va assolutamente restituita - come per qualsiasi altro cittadino - la facoltà di difendersi dalle contestazioni incarto per incarto, rimprovero per rimprovero, fattispecie per fattispecie. E possibilmente per iscritto, come buona regola giudiziaria e amministrativa impone.
La democrazia, presidente Caprara, non prevede atti di fede (ciò è prassi nelle teocrazie), ma pesi e contrappesi, diritti e doveri basati su regole, procedure, carte. Tutte le istituzioni sono, e devono, essere sottoposte a verifica. Neppure il Consiglio della Magistratura è una congrega di angeli caduti dal cielo perché troppo pesanti, dalle cui labbra pendere acriticamente. E non c’è nulla di coraggioso, presidente Caprara, nel definire “pericoloso” un magistrato e al contempo lasciarlo al suo posto. Al contrario.
Del resto non è un caso se eminenti giuristi liberali, come Mario Postizzi e Luciano Giudici, o giudici in carica come Mauro Mini, abbiano sottolineato con forza quanto il diritto ad essere sentiti non possa essere schivato, o calpestato, come purtroppo sta avvenendo.
Il Consiglio della Magistratura ritiene di aver fatto i compiti correttamente. È importante rileggere ciò che ha scritto il presidente Werner Walser nella lettera indirizzata alla Commissione Giustizia contenente i preavvisi: “Abbiamo esaminato l'operato dei magistrati attivi presso il Ministero pubblico, valutando l'attività di ognuno - sia della qualità sia della quantità del lavoro - per tutto il periodo di elezione che si concluderà a fine dicembre 2020”. Per tutto il periodo di elezione. Essendoci tra i “cinque” bocciati anche magistrati in carica da molti anni, vi è da supporre che per ognuno vi sia un corposo e dettagliato dossier, tale da sorreggere la gravità dei giudizi espressi. Ebbene, se questi dossier esistono, e non vi sono riserve da parte degli estensori sulla bontà del metodo adottato e sulla solidità delle conclusioni, perché non metterlo a disposizione delle parti interessate (il Gran Consiglio e i cinque procuratori)? Se dalle carte, sentiti i diretti interessati, i giudizi si confermassero corretti, la maggioranza del Parlamento li asseconderebbe senza problemi.
In nome della massima trasparenza, alla Commissione Giustizia, andrebbero mostrati anche i dossier dei 15 procuratori “promossi". Per capire se il metodo di valutazione è stato corretto e coerente per tutti. Per sapere a che punto è stata messa l’asticella, tra chi può rimanere e chi dovrebbe andarsene. I “bocciati” sono stati massacrati con parole pesantissime, per i “promossi” un solo aggettivo, “idoneo”, e nessun altro commento.
Per tutti questi motivi non è più una questione di nomine, ma di democrazia. Il Gran Consiglio - che è la casa della Costituzione - non può accettare che venga leso il diritto ad essere sentiti in maniera così grossolana, salvo diventare complice di un gravissimo abuso e di uno spaventoso precedente.
Da qui bisognerebbe cominciare. Dalla conoscenza dei fatti e dalla verifica del processo che è scaturito nei preavvisi. Ed è difficile comprendere come mai la Commissione Giustizia non abbia ancora attivato, come in suo potere, l’alta vigilanza per cominciare a sanare questa ferita.
Se questo diritto non verrà tutelato con forza dal Parlamento o da qualche giudice a Berlino, non sarà più una questione che riguarda solo loro, i cinque procuratori, ma tutti noi.