Riflessioni sullo stato di salute dei partiti a margine della votazione sul "decreto Morisoli"
di Andrea Leoni
Hanno votato in pochissimi e ciò era prevedibile: l’inconsistenza della proposta ha reso la battaglia puramente ideologica, in un’epoca senza ideologie e con poche passioni politiche. Uno scontro anni ’80-’90, collocato nel 2022: era fuori moda per forza. D’accordo, mancava un oggetto federale capace di mobilitare le masse, ma per quanto se ne è scritto e dibattuto, e per il tasso polemico della disputata, il 50% degli elettori sarebbe stato un obbiettivo minimo. Invece il “decreto Morisoli” si è confermato per quel che è sempre stato: una fumosa discussione autoreferenziale tra addetti ai lavori. Politici, giornalisti e qualche appassionato. Una minoranza rumorosa.
La sinistra si è messa nel sacco da sola, regalando alla destra una vittoria elettorale non richiesta e incassando una brutta figura. Non proprio un affare. L’errore è stato quello di farsi ingolosire da un referendum inutile a un anno dalle elezioni, anziché armarsi di un pochino di pazienza e sfidare i sostenitori del “decreto” con il prossimo preventivo in Parlamento sulle misure concrete e non sulle chiacchiere. Capita di cedere alle sirene.
Non essere riusciti a mobilitare il proprio elettorato è la febbre che certifica l’abbaglio. Aver esacerbato i toni con sparate grottesche (“Morisoli come Pinochet”) e volantini con immagini da “sette piaghe d’Egitto”, la cartina di tornasole che ha rivelato l’assenza di argomenti concreti a sostegno della battaglia. Quella di ieri è stata una brutta sconfitta anche perché c’era il contesto ideale per imporsi: gli strascichi della pandemia, l’angoscia per la guerra tra Russia e Ucraina con le relative, gravi e concrete, conseguenze economiche sul borsello dei ticinesi. Condizioni quadro che, almeno sulla carta, chiamavano il bisogno di uno Stato forte, protettivo, pronto a intervenire e quindi con una vocazione più alla spesa che al risparmio. Ma, come detto, c’era il contesto ma non la sostanza e la preoccupazione non ha attecchito.
Sconfitto è anche il PPD. Il partito di Fiorenzo Dadò si è messo nella situazione di combattere, con argomentazioni cavillose, una proposta che sostanzialmente condivideva. La si è percepita chiaramente durante i dibattiti, la poca convinzione nel contrastare tesi che per le ultime due legislature sono stati la bussola della politica finanziaria azzurra (dai tempi della “road map” ...). Radio lavanderia racconta che a “imporre” al gruppo pipidino l’opposizione al decreto sia stato il ministro Raffaele De Rosa, il quale però non si è poi speso con mezza parola, neppure durante il Comitato cantonale, per difendere la scelta. Il che qualche malumore lo ha creato e lo sta creando. Detto questo resta la sensazione che in Ticino ogni qual volta il PPD sfiora la sinistra, si scotta. Più in generale si coglie una difficoltà crescente del partito nel saper assumere una collocazione chiara. Gli azzurri fanno tante buone proposte (affitti, imposta di circolazione) ma sui temi di fondo non si sa dove stanno di casa. La contesa appena conclusasi ha inoltre guastato definitivamente i rapporti con il PLR. C'è da riflettere seriamente, a un anno dal voto.
Passiamo ai vincitori. Innanzitutto l’UDC. L’UDC di Sergio Morisoli e di Paolo Pamini. Con una mossa quasi banale in Parlamento - un decreto a un consuntivo - hanno conseguito un altro successo alle urne e un enorme bagno di visibilità. È la dimostrazione che con il lavoro e la competenza si può ottenere molto anche se si è in pochi. Ma il successo di domenica evidenzia i frutti di un lavoro più profondo, iniziato qualche anno fa. Costruendo un progetto politico sotto l’etichetta “liberalconservatori”, Morisoli ha trasformato l’UDC da quelli di “Prima i nostri” e dei “criminali stranieri” a un partito a tutto tondo, capace d’intestarsi temi come quelli della scuola, delle finanze e della fiscalità. Comunque si giudichino le dee, non si può non riconoscere la qualità di questo lavoro.
Vince anche la Lega a braccetto del proprio alleato. Guadagnare dalle intuizioni altrui è comunque un merito, ma nel continuo gioco di equilibri tra i due partiti della destra, la vittoria “di riflesso” resta comunque un sassolino nella scarpa per la dirigenza leghista. Iniziano infatti ad essere diversi i successi in cui la Lega s’impone a rimorchio e non come locomotiva di una proposta. Questa volta poi nessuno dei due ministri si è espresso a favore del decreto, anzi Claudio Zali si è dichiarato contrario con parole severe. Anche per questo in via Monte Boglia si ragiona giustamente sul lancio di una o più iniziativa popolari in grado di ridare al Movimento un ruolo da protagonista.
Buona la prima anche per Alessandro Speziali. Il presidente del PLR ha sigillato con il sostegno a questo decreto il ricollocamento del partito nell’area di centrodestra. Una scelta politica di chiarezza e di coraggio, coerente con quanto aveva promesso nella campagna che lo ha portato alla presidenza. Come per la Lega ora tocca ai liberali lanciare una proposta che li riporti al centro della scena. Aver passato indenne il primo, delicato, esame elettorale - ben più scivoloso che per democentristi e leghisti - suggerisce di proseguire sulla strada tracciata.
Detto questo, nessuno salti a conclusioni affrettate. Il voto di domenica non è una sentenza ma un sondaggio. Con un campione assai ridotto. Ignorarlo sarebbe sciocco, utilizzarlo come una profezia evangelica sulle prossime elezioni, di più.