SECONDO ME
Sergio Morisoli: "God save capitalism"
"Il recupero del sano capitalismo, quello per intenderci che chi ci caccia i soldi o vince lui o paga lui gli errori, è un passaggio obbligato per rimetterci in sesto"

di Sergio Morisoli

Dio salvi il capitalismo; lo scrivo in inglese ad onore del dove, del quando e del chi lo inventò. Mai come di questi tempi, incontrando amici e in scambi di opinioni casuali ed effimeri al mare o in montagna, mi è parso di sentire un gusto nostalgico per un ordine politico ed economico del passato prossimo. Devo essere sintetico nel descrivere le impressioni udite. Il blocco dell’ovest e quello dell’est, alla fin fine erano assicuranti; era un mondo bipolare dove erano chiare le regole, le aspirazioni, i desideri e in sintesi i fini e i mezzi per raggiungerli (o tentare di raggiungerli).

L’emisfero nord del pianeta deteneva l’70% della ricchezza e quasi il’70% di ciò che veniva prodotto veniva anche commercializzato nei mercati sopra l’equatore. Poi salta il muro e tutto cambia. Le ideologie diventano superflue, in modo affrettato si conclude che non esistono più; mentre invece esistono ancora svuotate però dagli ideali che le avevano fatte nascere e prosperare. Non solo, per di più ne nascono altre e nuove più attrattive ed adatte al secolo (buonismo, salutismo, ecologismo, nichilismo, relativismo ecc…). Il terremoto politico delle ideologie, dove in definitiva tutte sembrano ormai giuste e sbagliate indistintamente, provoca poi questo senso strano che fa nascere la nostalgia per un ordine partitico e sociale, inteso come categorie di liberali, di conservatori, di socialisti, andato perso.

 La seconda schermata mette in luce un fenomeno ancora più forte: la globalizzazione. I mercati sono più larghi dei confini nazionali, le merci vanno su e giù dal mondo senza ostacoli né di tempo né di spazio, i lavoratori “titolari” e non solo i disoccupati, devono rincorrere i lavori laddove vanno a localizzarsi. Dalla cultura sedentaria del coltivatore e raccoglitore, siamo stati buttati brutalmente nella cultura del nomadismo da caccia o da fuga. Alle nostre piccole latitudini il lamentio diventa spesso il “si stava meglio” quando c’erano: le FFS, le Officine, gli Arsenali, le guardie dei forti, il militare, le Poste e i Telefoni, le Dogane, le cinque grandi banche separate, la ramina alta, e il tunnel del Gottardo era (per le auto) solo un progetto.

 La nostalgia per l’ordine perso deriva a livello globale, prima che da questioni economiche, molto di più da un mutamento strutturale e sostanziale dell’occidente: del suo modo di vivere, di educare, di lavorare. Sarà un caso che nei Länder tedeschi già comunisti della ex DDR, i neonazisti crescono a vista d’occhio, e che in zone insospettabili come le città opulente e finanziarie dell’Ovest i comunisti hanno un ritorno di fiamma impressionante (perfino in America!)? Entrambi promettono di ricuperare certezze, sicurezze e ordine (purtroppo quelle sbagliate)! A questo si aggiunga l’ultima brama di certezza e sicurezza (dirigismo e autoritarismo), quella generata dalla Pandemia.

Piaccia o no siamo in una “società liquida”, ovvero nulla ha più forma, definitività, resistenza; tutto passa scorre via, si mescola e rimescola. È un’eccellente definizione inventata dal filoso (polacco, ateo ex comunista) scomparso Zygmunt Bauman, ma non basta saperlo (gli accademici) o accorgersene (il popolo). Diversi chiodi di sicurezza in parete sono saltati, sostituirli non basta più, è tardi; aprire nuove vie non è semplice siccome non è più solo una questione di “come” farlo ma soprattutto di senso, cioè “perché” farlo. Alcuni dicono, tra molti “post” qualcosa, che siamo sia post-marxisti che post borghesi, può darsi. Entrambe le categorie sociali possono esistere se sul mercato il capitalismo e in politica il liberalismo sono vivi e in salute, se li togli di mezzo svaniscono. È dunque il capitalismo ad essere stato fatto fuori, e il liberalismo a essersi fatto fuori da solo. Intendiamoci la ricchezza aumenta e i multimilionari crescono in continuazione. Ma attenzione, più opulenza e diventare sempre più ricchi non è sinonimo di capitalismo. Come più suffragio universale e più democrazia non significa più libertà.

In un libro dal titolo “I sette peccati del capitale“l’avvocato e finanziere  Tito Tettamanti ci ricordava: “La pace e il benessere di cui possiamo godere noi abitanti della parte ricca del pianeta sono in stretta relazione con l’ordine di mercato che non è affatto responsabile di tutte le ingiustizie e le atrocità che avvelenano la terra, mentre al contrario è proprio dove il capitalismo è assente che l’umanità è costretta a soffrire nelle condizioni più disumane”.

Egizi, greci, romani, cinesi, sovietici, arabi erano e sono tutto questo senza mai aver avuto un sistema capitalista. Qui sta il punto. Come la moneta grama scaccia quella buona, il cattivo capitalista ha fatto fuori il capitalismo sano. Chi l’ha ucciso o cacciato in fin di vita? Indagare per trovare i colpevoli non è facile, ma alcune piste si vedono e alcune tracce si scovano. Mi è capitato di leggere un commento strano di un ex no global, diventato giornalista economico e addirittura poi cronista al Forum di Davos. Suppergiù, vado a memoria, diceva:” mi aspettavo di andare lì nel supremo summit del capitalismo mondiale e trovare un branco di lupi affamati, invece ho trovato un gregge di agnelli preoccupatissimo e intento a trovare protezioni da ciò che avevano messo in piedi!” Affermazione strana. Se si scorre però la cronaca, l’ordine del giorno, la lista degli invitati e i reportage del Forum degli ultimi anni sembra così davvero. Nessuno parla più di come aumentare i profitti, le rendite, di progresso tecnologico per guadagnare di più, di conquista di mercati o quote di mercato per aumentare l’occupazione, di ricerca e sviluppo finalizzata a produrre soldi, di sistemi di produzione più performanti e ottimizzati per abbattere i costi, di scovare bisogni nuovi e soddisfarli tramite l’ingegno, di speculazione (significa intelligenza e sicurezza), di giusti prezzi, di sacrifici imprenditoriali, di compra e vendite, di rischi, di come battere i concorrenti e altro ancora. Insomma, quel motore che serve a produrre profitto e che tiene in piedi sì il capitalismo, ma anche il benessere e la prosperità collettiva è un tema tabù cancellato dalle agende. Perfino lì.

 In cambio si discute molto di governo del mondo, di governo della finanza, di bilanci sociali, di macrorganismi statali internazionali; come dire: il capitalismo ci ha portato fin qui adesso ci vuole altro. Ma una domanda nasce spontanea. Perché chi disegna scenari apocalittici per il futuro, e ha partecipato a crearli, dovrebbe ora essere in grado di correggerli e ottenere la fiducia per agire? C’è una spiegazione. Il capitalismo (quello vero) agonizzante è vittima di una coincidenza, o forse anche no, cioè dell’alleanza tra finanza dopata liberista (destra?) e l’anarchia degli usi e dei costumi (sinistra?). Gli uni hanno saccheggiato il mercato, gli altri i valori; con la complicità degli statalisti della politica per modificare le leggi da una parte, e dall’altra dei partiti per non perdere elettori.

Tant’è. Il recupero del sano capitalismo quello per intenderci che chi ci caccia i soldi o vince lui o paga lui gli errori, è un passaggio obbligato per rimetterci in sesto.

Sentiamo Wilhelm Röpke: “Non si sfugge. Chi, come noi, vede nell’economia di mercato una necessaria condizione per una società degna dell’uomo, libera, redditizia e tagliata per l’uomo, deve anche dichiararsi favorevole agli indispensabili meccanismi, attributi e ragioni di questa economia di mercato: il profitto, l’aspirazione al profitto, gli interessi propri, la lunga lista delle libertà, la concorrenza, la proprietà, la funzione degli imprenditori, il reddito dei capitali, le speculazioni e via di seguito. Non possiamo non accettare tutto ciò. Onestamente non possiamo dire di sì all’economia di mercato e di no a tutte le condizioni ed ordinamenti necessari- e vorrei qui sottolineare la parola necessari.” (Il vangelo non è socialista”, IBL Rubbettino 2006)

L’azienda esiste e agisce solo e soltanto per tre scopi: primo, soddisfare i bisogni materiali dei consumatori; secondo, produrre profitto per i proprietari e terzo, distribuire salari a chi merita. Il primo scopo è il modo più evoluto per mantenere la pace tra chi ha e chi vuole avare; il secondo è il modo più evoluto per premiare chi rischia e investe; ma anche per far partecipi milioni di cittadini tramite fisco e ridistribuzione; il terzo è il modo più dignitoso per valorizzare il lavoro umano. L’azienda è il motore del nostro sviluppo. L’errore più colossale che stiamo facendo è quello di mungerla tramite tasse e balzelli e di imporle per Legge una serie di ruoli e di obblighi che non c’entrano nulla con il suo ruolo naturale e i suoi tre scopi fondamentali. Il grave è che stiamo facendo questo nella macro, a livello planetario, e nella micro a livello cantonale. Cambia la scala di misura, ma non il metodo né i contenuti. Già Milton Friedman ci metteva in guardia: “Poche tendenze possono scardinare in maniera così totale i fondamenti stessi della nostra società libera, come l’accettazione, da parte dei dirigenti delle imprese, una responsabilità sociale diversa dalla pura e semplice responsabilità di guadagnare la maggior quantità possibile di danaro per gli azionisti. Si tratta, infatti di una dottrina fondamentalmente sovversiva” (New York Times 13.9.1970).

 Dall’azienda si pretende ormai che si occupi dei neonati fino all’età scolastica (asili nido), che faccia ore di servizi sociali (ente caritativo), che trasporti lavoratori e famigliari (agenzia ambientale), che assuma solo laureati e ingegneri (casta elitaria), che paghi salari senza relazione con ciò che fa (ente filantropico), che assuma chi non ha bisogno (agenzia di collocamento), che sia innovativa per decreto (club statalista esclusivo), che non faccia differenze di merito o altre (cellula comunista). Mi fermo, ma basta dire che l’invasione dello statalismo, come scambio di favori con la finanza liberista e l’anarchia dei costumi, è visibilissima: i “bilanci sociali” di molte aziende, per piacere alla gente che piace, sono ormai più spessi e importanti dei tradizionali bilanci economici.

Già von Mises nel 1944 ci faceva aprire gli occhi: “la nostra però è un’epoca di ostilità generale contro la ricerca del profitto. La ricerca del profitto è condannata dall’opinione pubblica come immorale e come estremamente dannosa alla comunità. I partiti politici e i governi cercano di eliminarla e di sostituirla con quello che essi chiamano il punto di vista del servizio, ma che, in realtà è gestione burocratica”.

 Se buona parte dell’occidente e dell’umanità è riuscita a passare da un’economia di sussistenza a un’economia del benessere è perché il capitalismo con i suoi attori e le sue regole sono riusciti a produrre profitti, guadagni superiori al necessario e valori aggiunti che hanno potuto essere tassati o distribuiti. Senza il guadagno capitalista con il gettito fiscale ad esso relativo, nessun sistema di stato sociale (welfare) avrebbe visto la luce, invece di ridistribuire soldi e offrire servizi a chi non poteva permetterseli, si sarebbe al massimo ridistribuita equamente la miseria. Si dimenticano le guerre, si dimenticano le crisi, si scaricano i valori, si liquidano le ideologie e ora si dimentica quali sono le necessità fondamentali per mantenere e creare prosperità e benessere. Anche queste ricette di successo fanno parte dell’identità occidentale cristiana e capitalista.

 Finora il mercato era quell'istituzione umana che ha permesso di mettere d'accordo pacificamente, nella soddisfazione dei bisogni materiali, centinaia di milioni di persone. Purtroppo, enormi gruppi economici e stati irresponsabili si sono messi a saccheggiare, dopare, truccare e distruggere questa istituzione. Il capitalismo scellerato cercando di neutralizzare le leggi della domanda e dell'offerta (pilotandole entrambe), della concorrenza (eliminando il piccolo), della sovranità del consumatore (monopolio dell'offerta), della scelta del consumatore (protezionismo mercantile). Lo statalismo ideologico, non sufficientemente memore dei disastri dell'economia pianificata, cercando di trasformare il mercato in un grosso supermercato in cui è la politica che decide: orari di apertura, le merci da vendere, disposizioni degli scaffali, istruzione del personale di vendita e dei clienti, prezzi, quantità, ammissione dei clienti, rimunerazione degli addetti; insomma, tutto o quasi. Entrambi i fronti hanno idealizzato mondi perfetti, possibili solo eliminando qualcuno o qualcosa. Vi è che, purtroppo, c'è parecchia materia andata distrutta da non giustificare sia la posizione degli uni che degli altri.

Colpevoli non sono né il mercato, né lo stato; né i loro motori: il libero scambio e la democrazia. Colpevoli sono quelle persone che hanno abusato del mercato e dello stato. Colpevoli sono quelli che hanno creato sistemi (finanziari) talmente perfetti (sic!) che per arricchirsi non bisognava produrre assolutamente nulla! Da qui la crisi finanziaria. Colpevoli sono quelli che hanno creato sistemi (welfare statale e spese pubbliche allegre) talmente perfetti che per vivere non occorreva più lavorare. Da qui il disastro dei Paesi indebitati.

 Le persone astute e scaltre degli ultimi decenni, qui la libera circolazione intercontinentale gioca in pieno, hanno potuto semplicemente scegliere se diventare potenti e ricche attraverso un mercato snaturato oppure attraverso uno stato irresponsabile; i furbissimi hanno saputo percorrere entrambe le vie. Queste sono le due categorie dei nuovi potenti della terra, e in mezzo ci sta il popolo che subisce le bizze degli uni o degli altri o di entrambi assieme.

 Qualcuno stappa champagne per l’avvento della “società liquida”, contenti di aver fatto fuori marxismo e socialisti da una parte e capitalismo e borghesi dall’altra, lavoratori e imprenditori, di aver atomizzato i cittadini da una parte e creato entità extraterritoriali mostruose dall’altra. E con essi, fatto fuori gli ideali e gli obiettivi che li caratterizzavano. Non c’è da meravigliarsi che la borghesia, dopo l’aristocrazia, sia la specie da eliminare. Sarebbe un potente freno alla liquefazione. La borghesia è un modo una cultura di essere, di vivere e di gestire i soldi, non di fare e di sperperare i soldi. Il termine «Bürgerlich» più volte dato per scontato e implicitamente ritenuto acquisito per sempre è un errore. Specialmente in Ticino. Cosa oggi significhi «Bürgerlich» per i cittadini che hanno meno di 50 anni non è dato sapere. Si parte da un (pre)concetto come se la «Bürgerlichkeit svizzera» fosse ancora un dato di fatto naturale visibile nella realtà. Cosa sia una politica borghese o i valori borghesi, ecc… è tutt’altro che scontato. Esiste una politica borghese se esistono i borghesi che fanno politica, e qui sta il punto. Quanti, quali e chi sono i borghesi oggi? Una borghesia si forma se vi è una chiara prevalenza di persone che la testimoniano coi fatti: la proprietà privata, l’intraprendenza economica propria, la solidarietà privata reciproca, la sussidiarietà dello Stato, il radicamento territoriale; caratteristiche, queste appena elencate, non certamente in crescita negli ultimi decenni. Del resto, come fa notare Deirdre McCloskey (I vizi degli economisti e le virtù della borghesia, IBL Libri 2014), non sono certo le virtù borghesi: “parsimonia, frugalità, decoro, prudenza, moderazione, benevolenza, coraggio, speranza, iniziativa e religiosità a dominare in quest’inizio secolo”. Il pensiero unico e gli opinion leaders vanno in ben altra direzione.

 Il materialismo storico di destra e sinistra ha il terrore delle resistenze non monetarie, non economiche, non finanziarie; che sono quelle spirituali, ideali, religiose, morali e valoriali. Per questo dopo il saccheggio dei mercati è ora in corso l’incendio di ciò che potrebbe ridare memoria all’uomo prima e al cittadino poi. Per questo è in corso la distruzione totale di tutto ciò che l’uomo crea tra lui e lo stato e tra lui il mercato, di tutto ciò che ostacola il monopolio politico e il monopolio economico, semplicemente non possono tollerarlo. L’intesa tra i killer del cosmos (ordine) per far vincere il caos (disordine), in termini volgari potrebbe essere: a noi i soldi e a voi i vizi.

 La soluzione? Come sempre non sono sistemi, ma un ricentramento dal basso. Una ripresa a partire dal singolo. Dal singolo consumatore, dal singolo elettore, dal singolo cittadino, dal singolo imprenditore, dal singolo docente, dal singolo politico, dal singolo lavoratore nel riscoprire e nel riconoscere quella traccia di sano capitalismo che tiene in piedi tutto. Difficilissimo ma non impossibile. Ci sarebbero le istituzioni adatte a questo scopo, ma mi paiono sgangherate. La scuola è alla ricerca di sé stessa e punta all’egualitarismo e all’ingegneria sociale; i partiti sono sempre di più agenzie elettorali invece di centri di produzione di proposte politiche; le famiglie sono, dopo la distruzione delle nazioni, dei popoli, delle imprese, l’ultimo ostacolo e la prossima resistenza di “libertà” da eliminare. Quanto alle “élites” si stanno autodistruggendo da sole con il “fake”: quella politica con promesse false, quella accademica con modelli falsi, quella economica con crescita falsa, quella mediatica con notizie false.

Come non associare al capitalismo rinnegato la fine anche del suo alleato più fedele, il liberalismo. In un libro di grande successo di Patrick Deneen (“Why Liberalism Failed” 2018) si può leggere: “Il liberalismo ha fallito non perché non ha raggiunto l’obiettivo, ma proprio perché è rimasto fedele a sé stesso. Ha fallito perché ha avuto successo. Diventando ‘sempre più sé stesso’, il liberalismo ha generato patologie che sono a un tempo distorsioni e realizzazioni della sua stessa ideologia”. In breve, non serve più al capitalismo, ha perso i valori borghesi, ha sostituito la rigorosa ricerca della verità tramite il dubbio con la certezza passiva del relativismo, ha sostenuto il libertinaggio dei costumi distruggendo i legami tradizionali non statali della società civile, ha favorito l’intromissione politica nel mercato, non ha disdegnato i vari populismi.

La natura della crisi viene da lontano. L’Occidente è in crisi, non sanitaria ma generale e profonda da almeno un decennio su più fronti: identità smarrita, cultura relativista, scristianizzazione, democrazia in affanno, statalismo inarrestabile e capitalismo rinnegato. Il Covid ha solo accelerato e ingigantito alcuni o pezzi di questi macro-trend negativi.

Un Continente, quello europeo, oltre che vecchio anche demotivato, deluso e da tempo senza attese e quindi senza speranza; non fa più figli e non investe nel rilancio (i capitali di investimento europei vanno in America e sono i cinesi a investire da noi). Ci auto colpevolizziamo in continuazione fino all’autolesionismo di dubitare della bontà di ciò che abbiamo costruito e prodotto nei secoli, fino a spalancare i confini a tutto e a tutti per sanare il senso di colpa. Il Covid ha messo brutalmente in evidenza e senza trucco la nostra situazione di crisi generale ed esistenziale, le nostre falle nel DNA. Quella economica ne è la diretta conseguenza più materiale e misurabile a breve termine. A medio e lungo termine vedremo altre ripercussioni molto negative.

Certamente sussisterà una globalizzazione, ma non più quella economica del libero mercato, bensì quella del mondialismo politico cioè la famosa tirannia della maggioranza, dell’omologazione tanto ben descritta quasi duecento anni fa da Tocqueville. In parallelo, economicamente, rinasceranno posizioni “neo mercantiliste” analoghe a quelle del ‘600 -‘700 così ben studiate e rifiutate da Adam Smith; posizioni di politiche economiche fatte di proibizionismi, di barriere all’entrata, dazi e balzelli sul commercio, embarghi, ricatti e boicotti verso chi non ci starà al gioco della standardizzazione planetaria. Tendenze, queste, che a loro volta faranno nascere la tentazione di una “governance” centrale e mondiale che non potrà fare a meno, per mettere “ordine e sicurezza”, di usare la pianificazione economica (es. tassa unica mondiale di Biden o la proibizione della concorrenza tra Stati) per dirigere la vita dei cittadini. 

In questa aurora degli anni ‘20 “post tutto” e “superstiziosa” siamo chiamati a verificare se la ri-unione del liberalismo al capitalismo potrà risolvere (speriamo di sì) i rischi colossali che appaiono all’orizzonte. Sociodemografico: squilibrio anzianità e natalità, scontri intra generazionale (individualismo), intergenerazionale (classismo), interetnici (xenofobia); scontri di identità (immigrazione). Sociodemocratico: crisi di legittimità e di rappresentanza; sgretolamento del cittadino “uno e trino” (contribuente, elettore e beneficiario); anonimato da multiculturalismo e globalismo; nomadismo e opacità dei decisori; Stato di diritto a corrente alternata; centralismo e dirigismo. Socioeconomico: disequazione tra il processo “creativo distruttivo” di mercato e il progresso tecnologico; squilibrio tra l’importazione di lavoratori e l’esportazione di posti di lavoro; capitali anonimi che inseguono il multipolarismo; crisi ridistributiva attraverso la decrescita; inefficacia del welfare state. Sociobiologico: manipolazioni genetiche, selezione eugenetica, gender, terapie embrionali, transumanesimo, inizio e fine vita, genitorialità, tecnoscienze, intelligenza artificiale, ambientalismo, biodiritto.

Oppure, speriamo vivamente di no, se dovremo consegnarci ad una sorta di processo democratico che ci spinge verso una “terapeutocrazia”, un mix autoritario tra tecnocrazia salutista e burocrazia perbenista. Cioè, la politica sostituita da scienziati infallibili e da funzionari modello che, assieme, faranno e ci imporranno leggi settoriali “perfette” per il nostro “bene e la nostra sicurezza”.

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