Il presidente della Camera di commercio: "Nelle settimane che hanno preceduto il voto sulla riforma fiscale abbiamo, purtroppo, assistito ad un’assurda campagna contro le imprese"
di Andrea Gehri (opinione apparsa sul Corriere del Ticino) *
Nelle settimane che hanno preceduto il voto sulla riforma fiscale abbiamo, purtroppo, assistito anche ad un’assurda campagna contro le imprese e contro gli imprenditori accusati di essere degli sfruttatori e in malafede. Biechi predatori seriali che si appropriano di quella ricchezza la cui creazione non è solo merito loro. Il punto è proprio questo: chi crea la ricchezza? Ovvio, che l’imprenditore non è un mago capace di creare da solo e dal nulla la ricchezza. La crea attraverso la sua impresa, ossia un’attività economica organizzata - come recitano i manuali di economia - per la produzione o lo scambio di beni e servizi, realizzati attraverso l’impiego di diversi fattori produttivi: capitale, forza lavoro, materie prime e macchine. Forza lavoro che, ribadiamo, è a tutti i livelli il motore di ogni azienda.
È questa attività economica organizzata che nel libero mercato crea ricchezza e occupazione, non se ne abbia dubbi. Ma al centro di questa impresa, quando essa non appartiene allo Stato o non è riconducibile a formule cooperativistiche, solitamente c’è sempre un imprenditore che se ne assume il relativo rischio. Se non ci fosse questo imprenditore, non ci sarebbe l’impresa. Non ci sarebbero, dunque, neanche le maestranze occupate nella produzione, i dirigenti, gli impiegati amministrativi, i tecnici che studiano come migliorare i prodotti o svilupparne di nuovi, il personale che cura la manutenzione, la pulizia e la sicurezza degli stabilimenti, gli addetti alle vendite e tutta la catena dei fornitori. In poche parole, non avremmo imprese, produzione, impieghi e creazione di ricchezza.
Certo, non tutti gli imprenditori avranno le mani sporche di grasso e le ginocchia logorate dalla fatica, ma sulle loro spalle gravano tante responsabilità per poter mantenere solida l’azienda. L’imprenditore deve investire e innovare per salvaguardarne la competitività nel susseguirsi delle ricorrenti crisi ( basta pensare a cosa successo nel mondo negli ultimi quindici anni) e per adattarla all’inarrestabile e all’impetuoso progresso tecnologico. Deve, inoltre, tenere testa ad una concorrenza internazionale sempre più agguerrita, cercare nuovi mercati ed essere anche capace di cambiare velocemente il suo modello di business ricalibrandolo sui frequenti mutamenti congiunturali.
Per fare ciò ha bisogno di mezzi adeguati, oltre che rischiare del proprio. Le sue risorse sono costituite dal profitto che riesce a fare l’azienda e non sempre vi riesce. Sotto la pressione ideologica e verbale di una sinistra radicaleggiante, in Ticino profitto è diventata, però, una brutta parola: è sinonimo di furto, di appropriazione indebita di valore sottratto alla forza lavoro. In realtà, esso dimostra in primo luogo che l’impresa è sana, che chi la gestisce fa un uso efficiente dei vari fattori produttivi, ma, soprattutto, è il profitto che assicura le risorse necessarie per investire e accrescere la capacità concorrenziale dell’impresa, per produrre a prezzi vantaggiosi quei beni e servizi che i consumatori richiedono, preservando i posti di lavoro e creandone anche di nuovi. Se non c’è profitto non si può continuare a produrre quella ricchezza di cui abbiamo bisogno.
A facili detrattori dell’impresa e degli imprenditori va ricordato che questa ricchezza non si misura solo in utili, fatturati e salari. Chi, grazie ai profitti, investe nella crescita dell’impresa innesca un circolo virtuoso che si riverbera su tutta la società: nuovi prodotti che soddisfano nuovi bisogni, più sviluppo produttivo e tecnologico, più lavoro qualificato, più «knowhow », più occupati e più redditi. Vantaggi di cui beneficia tutto il nostro sistema Paese e dove la maggior parte degli imprenditori lavorano zitti e buoni, nonostante la narrazione di taluni politici.
* presidente Camera di Commercio