"Gli incrementi maggiori di personale proveniente da oltre confine si sono registrati, negli ultimi dieci anni, non nell’industria bensì nel settore terziario. Ecco perché il problema è più serio di quanto si pensi"
di Amalia Mirante *
Tra ottobre e dicembre 2022 i frontalieri in Ticino hanno raggiunto quasi quota 78.000: una crescita di oltre 3.000 unità rispetto a un anno fa. La differenza con la situazione di dieci anni fa è impressionante: nel 2012 c’erano 21.000 frontalieri in meno. In un cantone che si spopola e invecchia, un posto di lavoro su tre, il 33%, va a persone che non vivono qui.
Ma le cifre ci dicono altro: e sono fatti ancora più preoccupanti. Dieci anni fa il 43% dei frontalieri lavorava nel settore secondario (l’industria e l’edilizia). Ora questa fetta è scesa al 32%. Visto che ancora oggi quasi un quarto del nostro PIL, oltre 7 miliardi di franchi, continua a dipendere da questo settore, evidentemente questa diminuzione non può essere spiegata con il fatto che oggi siamo più Silicon Valley che Valle della Ruhr.
Se la quota di frontalieri scende nell’industria e nell’edilizia, è perché aumenta nel settore terziario, quello dei servizi. Infatti qui si passa dal 56% al 67%. I cambiamenti maggiori riguardano le professioni legate alla attività legali e contabili, quelle degli studi di ingegneria e architettura, le attività di consulenza alle aziende, le attività di design specializzate, ecc. In
queste professioni qualificate c’è stato un aumento dei frontalieri di due volte e mezzo, da 3.600 persone alle oltre 9.300.
Se non fosse una cosa grave per chi vive qui, ci verrebbe da sorridere guardando all’incremento dei
frontalieri nelle attività di ricerca, selezione e fornitura di personale per le aziende (sic!), passati in 10 anni
da 2.700 persone a 4.100.
Le conclusioni? Sono principalmente tre.
La prima: è falso che i frontalieri facciano “i lavori che i ticinesi non vogliono fare”. I ticinesi quei lavori li farebbero eccome. Semplicemente, non possono, perché le paghe sono lombarde e non svizzere. Sono, cioè, stipendi per assumere frontalieri e non residenti.
Secondo: la formazione di per sé non è sufficiente per permettere ai lavoratori residenti di “vincere” la competizione con i frontalieri. I frontalieri non sono meno qualificati. Sono però meno costosi. Addirittura in parecchi casi si selezionano frontalieri anche in ambiti pubblici, di ricerca o formativi. I nostri giovani qualificati e iper-qualificati emigrano a nord mentre i frontalieri, con qualifiche analoghe, arrivano da noi. La formazione è importante, ma, confrontata con la pressione al ribasso sui salari, non è sufficiente.
Infine, mentre destra e sinistra litigavano e fingevano di occuparsi del problema, in maniera poco sorprendente il problema si è aggravato. La politica sta deludendo attese e speranze dei lavoratori residenti.
*Co-fondatrice Movimento Avanti