Il medico racconta la sua esperienza alla Carità di Locarno: "Non ho mai visto un ospedale di guerra, ma penso sia qualcosa di simile…"
di Marco Bazzi
Frédéric Lelais è anestesista alla Clinica Ars Medica di Gravesano, ma da alcuni giorni è tra i medici impegnati in prima linea per gestire l’emergenza Covid-19. Ha già trascorso quattro giornate alla Carità di Locarno, con turni sfiancanti da 12 ore l’uno: si inizia alle 7,30 e si finisce alle 19,30. E nei prossimi giorni tornerà là dentro, nel reparto di cure intensive.
Si è infilato il camice da capoclinica e ha messo tutta la sua esperienza e la sua energia a disposizione del pool sanitario che sta combattendo questo maledetto virus, cercando di salvare la vita a chi sta lottando contro la morte. Anche il dottor Lelais lancia un appello a coloro che vorrebbero iniziare a “riaprire”, a rallentare le misure che il Ticino ha messo in campo per affrontare la pandemia: “Va fatto, ma non prima di inizio maggio”, dice.
Dottore, ha avuto paura quando è entrato là dentro, nell’ospedale del virus?
“Certo, che ne ho avuta, e tanta, soprattutto il primo giorno. Ma poi la paura si è trasformata in una sensazione di rispetto nei confronti del virus. Un cambiamento a livello di sensazioni interiori che mi ha sorpreso e che mi ha permesso di lavorare con una certa serenità”.
La paura è dunque svanita?
“Diciamo che si è trasformata. Anche perché lavorare con la paura addosso potrebbe indurti a comportamenti inadeguati o farti commettere gravi errori. Devi quindi cercare di lasciartela alle spalle e trovare un equilibrio che ti consenta di lavorare in modo corretto, per il bene del paziente, e preservando te stesso e i tuoi collaboratori. È chiaro, lavori sempre con questo virus micidiale che ti soffia sul collo e devi stare molto attento a come ti vesti, a come ti proteggi, a cosa tocchi, a come manipoli i tubi e gli apparecchi respiratori”.
E che cosa ha visto in quel reparto?
“Guardi, non mi immaginavo di trovare quello che ho trovato. Non ho mai visto un ospedale di guerra, ma penso sia qualcosa di simile… Vedere una quarantina di pazienti intubati tutti insieme è qualcosa che a livello umano ti sconvolge. In positivo, invece, ho visto medici e infermieri che non si sono mai incontrati e che non si conoscono lavorare insieme come se lo avessero sempre fatto, con una motivazione, un rispetto e uno spirito di collaborazione eccezionali. Nessuna discussione e un grande lavoro d’equipe, malgrado la situazione d’emergenza e la complessità della malattia. E questo è un altro fattore che mi ha molto colpito”.
Cosa intende per complessità?
“Abbiamo a che fare con una malattia che non si conosce, che non sappiamo come gestire… non capisci per esempio perché un paziente migliora e un altro peggiora…”.
Dottor Lelais, in questi giorni si stanno moltiplicando le voci di coloro che, visto che si è raggiunto il ‘picco’ del contagio, vorrebbero iniziare dopo Pasqua una riapertura graduale delle attività in Ticino. Lei che ne pensa?
“Picco o non picco io penso una cosa: la prima condizione per riaprire è che gli ospedali Covid siano vuoti, che ci siano pochi pazienti in cure intensive e che si possa prenderne a carico altri. Buona parte dei pazienti ancora ricoverati in cure intensive, ma anche in reparto, non potrà essere dimessa nelle prossime due settimane. Bisogna dunque svuotare gli ospedali, altrimenti rischiamo di ricominciare l’esercizio da zero. Il personale ospedaliero ha bisogno di riposarsi, bisogna allentare la tensione sul sistema sanitario, altrimenti salta il tappo. Le condizioni sono: primo, avere le risorse, secondo, preservarle. Dico quindi no a un allentamento delle misure attualmente in vigore almeno fino a inizio maggio”.
Eppure il Governo intende allinearsi con le misure della Confederazione, il che significa in altre parole, allentare la morsa sulle attività economiche e sociali…
“Come si fa ad allinearsi a livello federale senza nemmeno sapere cosa succederà negli ospedali degli altri cantoni, che finora ci hanno dato una mano ad accogliere alcuni pazienti? Secondo me occorre sedersi al tavolo con tutti i partner coinvolti e trovare una strategia di squadra, che tenga conto anche delle differenze regionali. E sa cosa le dico? Oltre ad allinearci con il resto della Svizzera o con la Confederazione - nel senso di discutere, com'è giusto, con i nostri partner nazionali - dovremmo anche allinearci con la Lombardia, perché abbiamo più contatti con le regioni italiane confinanti che con gli altri cantoni, pensiamo soltanto ai frontalieri”.
Lei cosa farebbe dunque?
“Ora che la situazione è relativamente tranquilla abbiamo il tempo per riflettere e per valutare come gestire il futuro immediato. Il 14 o il 19 aprile è troppo presto per riaprire. Bisogna resistere almeno fino al 1° maggio e approfittare di questa tregua per capire come reagire e come prepararsi al futuro, definendo diversi scenari”.
E dopo? Dopo i primi di maggio, intendo?
“Credo che i prossimi mesi saranno determinati da come gestiamo adesso la situazione, a livello di cittadini, di collettività, di Stato, di corpo medico. Se ci sarà un piano d’azione chiaro e trasparente penso che ce la faremo. Anche se il virus non scomparirà molto presto. Alla fine il Covid-19 lo faremo tutti o quasi, e molti l’hanno già fatto senza accorgersi, ma se non testiamo gli anticorpi non lo sapremo mai. Questa è quindi un’altra cosa che occorre valutare”.