CORONAVIRUS
Coronavirus in Ticino, il Prof Moccetti: "Ecco perchè aprire prima di maggio è pericoloso per la salute e per l'economia. Servono mascherine per tutti"
Intervista a tutto campo al fondatore del Cardiocentro sull'emergenza Covid19: "Il vaccino? Spero per la fine dell'anno"

di Andrea Leoni

Professor Moccetti, lei è tra i medici che ha sottoscritto l’appello al Consiglio di Stato che chiede il mantenimento del lockdown totale in Ticino fino al Ponte del Primo Maggio. Perché ha sottoscritto questa richiesta? Può spiegarlo ai lettori in maniera semplice?
“Se si dovesse procedere a una riapertura delle attività economiche prima di maggio, molta della gente che è stata finora protetta grazie alle misure restrittive, tornerebbe troppo repentinamente ad essere esposta al virus, con il rischio concreto di ammalarsi e di diffondere di nuovo, esponenzialmente, la malattia. Il grafico della curva epidemiologica diventerebbe come una gobba di cammello, mentre ora cominciamo a vedere solo quella del dromedario. A mio parere vi è un serio pericolo di esporre la popolazione a una seconda ondata epidemica. Seconda ondata che oggi nessuno può dire se sarebbe più o meno grave di quella che abbiamo appena vissuto”.

Aspettando fino a maggio, invece, cosa cambierebbe? In fondo sono solo una decina di giorni differenza rispetto al 19 aprile, data entro la quale il Governo ticinese potrebbe allentare la morsa per aziende ed edilizia.
“In realtà potrebbero cambiare molte cose importanti. Dieci giorni, come la storia di queste settimane ci insegna, non sono affatto pochi all’interno di un contesto epidemico. Innanzitutto, aspettando fino al 4 maggio, la maggior parte delle persone attualmente in cura sarebbe o in fase di guarigione o, purtroppo, deceduta. Ciò consentirebbe di svuotare gli ospedali e di dare un po’ di respiro agli operatori al fronte. Questo punto, spesso sottovalutato, è molto importante in vista dei prossimi mesi, quando il virus resterà in circolazione e avremo ancora bisogno di personale sanitario il più in forma possibile per curare gli ammalati. Oltre a questo aspetto, questa decina di giorni possono fare la differenza per affinare e implementare le misure d’accompagnamento necessarie per una riapertura quanto più possibile in sicurezza, e penso in primis alle mascherine”.


Alle mascherine ci arriviamo tra un momento. Perché è così importante l’aspetto degli operatori sanitari che citava poc’anzi?
“Si parla sempre giustamente del numero dei respiratori e dei posti letto in terapia intensiva. Ma questi apparecchi funzionano solo grazie al lavoro di personale qualificato. Si tratta di un compito che non può essere svolto da un infermiere con conoscenze di reparto. I pazienti intubati, inoltre, devono essere seguiti costantemente, il che necessita di un numero importante di professionisti, che sono però limitati e hanno dovuto sopportare dei turni massacranti in queste settimane. Il sistema sanitario ticinese ha vissuto due mesi di stress fortissimo. Senza le misure di contenimento adottate dal Governo, saremmo collassati in pochi giorni. Ora che l’epidemia rallenta è dunque fondamentale dare respiro sia alle strutture che al personale. Altrimenti rischiamo di ritrovarci punto e a capo. Ma con gli operatori molto più stanchi e con gli ospedali ancora mezzi pieni”.

 
A proposito di questo. Questa crisi ci ha insegnato quanto sia importante non dipendere da personale estero nei settori strategici, come quello sanitario. Per settimane abbiamo tremato all’idea che l’Italia richiamasse in patria i suoi medici e i suoi infermieri. La Svizzera dovrà intervenire affinché questo pericolo non si ripresenti, concorda?
“Senza alcun dubbio. È evidente che dobbiamo arrivare ad avere un tasso del 70-80% di personale residente nell’ambito delle strutture sanitarie. Ciò vuol dire potenziare le scuole infermieristiche, dando nuove prospettive a chi sceglie questa professione, e allentare la morsa del numero chiuso per la formazione dei medici. Occorrerà trovare un nuovo equilibrio. Equilibrio, però. Il che non vuol dire passare da un opposto all’altro. Penso soprattutto al numero chiuso: immagino una progressiva apertura, magari del 10% ogni anno”.

Restiamo ancora un istante sul tema delle riaperture. Sappiamo che l’economia preme. Lei che è da sempre un esponente liberale, cosa si sente di dire agli imprenditori che insistono per delle riaperture precoci?
“Capisco bene le preoccupazioni degli imprenditori, ma dico loro che una riapertura troppo precoce, prima del 4 maggio, rischia di esporre le persone e le aziende ad un pericolo ancora peggiore rispetto a quello che abbiamo vissuto in queste settimane, anche dal punto di vista economico. In  questo momento l’economia soffre, non c’è dubbio, e ne verrà fuori ammaccata di bastonate. Ma se vi fosse una ricaduta - con un conseguente nuovo lockdown nel giro di poche settimane - oltre che con le bastonate, bisognerebbe fare i conti anche con un effetto psicologico pesantissimo. L’incertezza assoluta, che è il male peggiore per qualsiasi imprenditore. Questa è una guerra che non finisce domani. Chi cerca di salvarsi troppo presto, va incontro al ritorno dello tsunami. E sarebbe catastrofico! In questo momento mettere al primo posto la salute, ha un valore anche dal punto di vista economico. Diciamo poi un’altra cosa: le autorità svizzere si sono mosse molto bene dal punto vista economico. Se guardo a come stanno litigando in Europa, sono molto felice di vivere in Svizzera…”.

La riapertura dell’economia in Canton Ticino è strettamente collegata al tema della frontiera, essendoci 70’000 lavoratori provenienti da oltre confine. Che fare da questo punto di vista?
“Bisogna dare atto al presidente dell’Ordine dei medici Franco Denti, di aver sollevato per primo questo tema molto importante. Denti aveva ragione quando chiese, per tempo, la chiusura delle frontiere. E allora venne molto e ingiustamente criticato! Oggi la questione si ripropone, forse addirittura con maggior forza. Da un lato non possiamo ignorare che questi 70’000 lavoratori rappresentano -anche per loro stessi e per le regioni in cui vivono - un fattore di rischio molto importante di diffusione del virus. Dall’altro sappiamo che l’economia ticinese ha bisogno di una parte importante di questa manodopera. L’ideale sarebbe avere a disposizione test istantanei a basso costo, ma siamo ancora lontani da una loro diffusione su scala industriale. Quindi per i prossimi mesi bisognerà trovare delle misure accompagnatorie, per minimizzare i rischi. Una potrebbe essere la misurazione sistematica della temperatura alla frontiera, come avviene negli aeroporti. Un’altra la mascherina obbligatoria, una volta attraversato il confine. Un’altra ancora, una qualche forma di turnover. Ma il problema è oggettivamente complesso e di difficile soluzione”. 

Veniamo al tema delle mascherine, già più volte richiamato in questa intervista. Lei fin dall’inizio è stato un convinto sostenitore di questo strumento. Ci spiega perché?
“Il problema delle mascherine è semplice. Se la mettono tutti, funziona bene come mezzo di protezione. Se la mettono solo alcuni, no. È un po’ come in sala operatoria. Se la mascherina fosse indossata solo dal medico e non dall’assistente, sarebbe assai pericoloso. Invece giustamente la portano tutti. E infatti funziona. Il principio è lo stesso. La Corea del Sud, che avendo vissuto la SARS era pronta ad affrontare una nuova epidemia, l’ha resa immediatamente obbligatoria per tutti, ben sapendo che si trattava di un primo, semplice ed efficace strumento di massa per frenare la diffusione del virus. C’è poi un altro aspetto da non sottovalutare…”. 

Dica.
“La mascherina è anche un deterrente, sia per un corretto autocontrollo che per favorire il distanziamento sociale. Di principio, infatti, non ci avviciniamo a chi indossa una mascherina e, utilizzandola a nostra volta, magari ci ricordiamo di lavarci le mani quando la togliamo e di non toccarci naso, occhi e bocca. Io, essendo una persona a rischio, l’ho immediatamente indossata, già dai primissimi giorni, quando ancora la problematica in Ticino non era esplosa”.

Perché allora in Svizzera, ma anche a livello internazionale, ci sono state tante reticenze?
“Le autorità avrebbero dovuto essere più sincere e corrette, dicendo la verità ai cittadini. E la verità è che le mascherine servono ma non ce sono abbastanza. A mio avviso la Confederazione avrebbe dovuto immediatamente incaricare un pool di esperti che si occupasse solo di questo, da un lato per acquistare le mascherine dall’estero, dall’altro per incoraggiare qualche nostro industriale a produrle, visto che le macchine sono in vendita in Cina a poco prezzo, e ogni macchinario può arrivare a "sfornare" 200’000 pezzi al giorno. Non occorre chissà quale impresa, se pensiamo alle mascherine chirurgiche, quelle di base, per garantire il fabbisogno giornaliero all’intera popolazione svizzera. Nei giorni che ci separano da maggio possiamo attrezzarci affinchè ciò avvenga”

Quindi dal suo punto di vista nessun dubbio: la ripresa del lavoro dovrà avvenire con le mascherine.
“Sì, senza dubbio. E penso anche che se le avessimo introdotte dall’inizio, in queste settimane non avremmo dovuto vivere un lockdown così restrittivo”

Ma quante ne servono al giorno per persona?
“Dipende dal lavoro. Se si fa un mestiere dove si suda tanto, o si lavora in tanti in un luogo chiuso, un paio. Altrimenti per chi lavora in ufficio, una al giorno basta. A patto di usarla correttamente”.

Anche lei, Professore, è stato toccato dal divieto di andare a fare la spesa, essendo un over 65. Come giudica quella misura, nel frattempo abbandonata dal Governo?
“Non è stata una misura sbagliata. Se penso alla situazione in cui eravamo solo pochi giorni fa, si trattava di un divieto proporzionato. Ribadisco: se tutti avessero portato la mascherina fin dall’inizio, non ce ne sarebbe stato bisogno. Ma nella situazione in cui eravamo, era necessario adottare quella restrizione”. 

Un altro tema inquietante che sta emergendo in Italia, ma anche da noi, riguarda le case per anziani. Tanti morti, personale probabilmente non formato per un’emergenza del genere, materiale di protezione insufficiente. Lei cosa pensa?
“Guardi, io fin dal primo giorno ho dato due consigli alle autorità: mascherine per tutti e l’esercito a presidiare le case per anziani. Non era infatti difficile immaginare che il virus, una volta entrato in queste strutture, avrebbe provocato un disastro”.

Lei, da persona appartenente alla fascia a rischio degli over 65, come sta vivendo questo periodo di confinamento a casa? Le pesa?
“Devo dire di no. Per chi come me ha sempre lavorato, questa epidemia è stata l’occasione per dedicarmi alle mie passioni: leggere, scrivere, guardare tanti film. Inoltre ho cercato di dare il mio contributo alla crisi sanitaria, sviluppando insieme ad altri il progetto di telemedicina in Ticino. Ad oggi abbiamo già cinquanta pazienti monitorizzati. Mi sono quindi tenuto impegnato anche dal profilo professionale, aiutando a costruire un progetto che potevo seguire da casa”.

Un’altra delle misure accompagnatorie che i vari paesi stanno mettendo in campo, è quello del tracciamento ed isolamento dei nuovi positivi, e dei loro contatti. In modo da spegnere sul nascere i nuovi focolai. Si utilizzano molto le nuove tecnologie. Le App, ad esempio. Google e Apple stanno lavorando insieme a un nuovo sistema che tuteli la privacy, un valore che nei paesi asiatici viene meno considerato. Lei che ne pensa?
“Sono favorevole. Tutto quello che può servire a limitare l’infezione, è importante. Naturalmente queste misure devono rispettare la cultura dei singoli paesi. Quindi ben venga che Google e Apple lavorino insieme a un modello di tracciamento più rispettoso dell’idea occidentale di privacy. Dal mio punto di vista giocherà un ruolo molto importante anche la capacità di testare con grande diffusione e grande velocità”.

Negli ultimi giorni sembra crescere l’ottimismo sulle tempistiche entro le quali avremo un vaccino. Prima si è sempre parlato di diciotto mesi, oggi pare si possa riuscire in tempi record. Secondo lei?
“In tempi record non lo so. Ma se si accelera, come sembra il caso, sul concetto di volontari disposti a sottoporsi al vaccino e ad esporsi alla malattia, si possono saltare diversi passaggi, il che vuol dire guadagnare molto tempo, se la sperimentazione va bene.   Consideri che tutta la comunità scientifica, in questo momento, è focalizzata sulla ricerca di un vaccino al Covid19. Un fatto senza precedenti. Queste due considerazioni mi portano a dire che possiamo sperare di avere un vaccino già entro la fine di quest’anno”.

Anche lei, Professor Moccetti, spera che il caldo ci venga in soccorso, frenando la diffusione Covid19?
“La maggior parte dei virus, durante il periodo estivo, sparisce. È vero che questo è nuovo e quindi possiamo anche aspettarci che agisca in maniera diversa. Ma io la speranza che si comporti come gli altri, la conservo”

In molti Paesi toccati dal Covid19, si registra un fortissimo calo degli infarti. In Ticino si stima intorno al 50%. Lei che idea si è fatto di questo “misterioso” effetto legato al virus?
“Intravedo due opzioni. Da un lato il paziente, essendo confinato a domicilio, non ha degli stress particolari e di conseguenza vi è la possibilità che la rottura della placca coronarica, il meccanismo che provoca l’infarto, sia effettivamente diminuita. La seconda ipotesi, invece, è meno rassicurante: temo che alcune persone, pur avendo una sintomatologia, non si rechi in ospedale per paura di contrarre il virus. Questo è pericolosissimo perché il fattore tempo, per un infarto, fa la differenza tra la vita e la morte. Quindi il messaggio ai cittadini deve essere: rimanete a casa, ma se avete dei sintomi da infarto, non esitate a recarvi subito all’ospedale”

Come immagina il nostro futuro, la nostra società, dopo questa pandemia?
“Come le dicevo, per questo Covid19, sono fiducioso che per il vaccino sia questione di mesi. Ma il problema sarà tutt’altro che risolto, perché negli anni ne nasceranno diverse d’infezioni virali come questa. Immagino una lotta continua tra questi nuovi virus e l’essere umano. Sarà un po’ come giocare a guardie e ladri. Determinante sarà la rapidità dell’intervento da parte nostra, la capacità di saper sbarrare subito la strada a queste malattie. In questo senso l’esperienza che stiamo vivendo potrà esserci molto utile”

Ma a suo avviso, questa pandemia, cambierà la nostra società?
“Ci saranno dei cambiamenti che di per sé erano già in atto. Penso alla difesa del pianeta, ad alcune delle idee della Greta e di moltissimi giovani. Anche l’home office potrebbe rimanere come valida alternativa al recarsi fisicamente al lavoro. Magari poi per un paio d’anni viaggeremo meno. Però, conoscendo l’essere umano e la sua memoria che va fino a un certo punto, immagino che in un tempo non troppo lungo torneremo più o meno alle abitudini del passato. Ha presente le promesse del marinaio? Quando la nave è in tempesta giura di cambiare in tutto, ma poi quando torna il mare calmo, si rimangia il giuramento…”

Nessuna possibilità, quindi, secondo lei di ripensare una società più a misura d’uomo, con ritmi meno stressanti, in qualche modo migliore?
“Per i pochi che amano fare delle riflessioni, magari sì, ma il mio timore è che per la massa, nel giro di poco tempo, la situazione riparta alla grande, come prima e più di prima. Come sempre avvenuto dopo le guerre”.

 

 

 

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