Il direttore della Clinica Moncucco: "In Italia aumentavano i casi, qui si pensava al carnevale. UFSP e medico cantonale non ci hanno aiutato"
LUGANO – “Il 21 febbraio era il venerdì di carnevale. All’ospedale di Codogno era stato diagnosticato il primo caso di coronavirus in Italia. Mi era bastata questa notizia per farmi dubitare della partenza, l’indomani, per la settimana bianca di carnevale”. Il direttore della Clinica Luganese Moncucco Christian Camponovo parla al Caffè di come ha vissuto questi due mesi d’emergenza e di quali – con il senno di poi – sono stati gli errori commessi”.
Camponovo ritiene che “la politica del ‘diagnostica e isola’ si è dimostrata un fallimento totale. D’altra parte, il fatto che a Codogno ci fosse un 38enne sportivo intubato ha dimostrato che non si trattava di ‘una normale influenza”. In Italia i casi aumentavano di giorno in giorno e qui, in Ticino, si continuava a pensare al Rabadan. “I segnali erano evidenti. Ma le autorità competenti sono rimaste in silenzio. Anche i professionisti del settore della salute non si rendevano conto di cosa ci attendeva”.
Al Caffè Camponovo spiega quali, a suo avviso, sono stati i fattori di ritardo nella reazione politica e sanitaria. “C’era scarsità di materiale diagnostico. I tamponi venivano analizzati solo a Ginevra inizialmente. Probabilmente è questo uno dei motivi principali del ritardo”.
Nell’intervista non mancano bordate all’Ufficio federale della sanità pubblica e del medico cantonale. “Non ci stavano aiutando. Fino a inizio marzo non avrebbero prodotto scenari di crisi. Abbiamo dovuto scrivere una lettera in collaborazione con l’EOC per farci ascoltare e far comprendere che si rischiava il collasso del sistema sanitario”.